Meridiani Montagne

La rivoluzione della montagna invernale

Ha nevicato! Anzi no, si è già sciolta. Sì, ma allora dove si scia? Forse a Bormio e Livigno, sui ghiacciai, al Presena o in Val Senales? Be’, per adesso quel che sappiamo è che le prime gare di Coppa, in assoluto le prime transfrontaliere tra Zermatt e Cervinia, sono state annullate. Per il caldo. E in definitiva, la questione oltre che climatica sta diventando culturale. L’ha detto bene Max Cassani, giornalista e sciatore, in un recente articolo su La Stampa: non abbiamo capito niente. Pandemia, guerre, global warming non ci hanno ancora insegnato nulla sull’orizzonte della sostenibilità. Ma guardiamo i fatti.

Lo scorso inverno sulle Alpi si è registrato un calo delle precipitazioni nevose fino al 70 per cento, mentre la presente stagione invernale, dopo la siccità dell’estate, rappresenta una grande incognita, per sciatori e gestori di impianti. Le risposte di questi ultimi al riscaldamento globale sono spesso scomposte: vanno da un sottile negazionismo (“ci si accorge di quando piove a quote sospette” ha detto ultimamente Enrico Ghezze, titolare di impianti a Cortina, “ma non ci si ricorda dei record di neve, oltre quattro metri solo tre anni fa”), alla richiesta costante di aiuti pubblici. Nella convinzione che lo sci di pista sia un modello insostituibile: “Se ci fermiamo noi rimangono fermi tutti” ha dichiarato Valeria Ghezzi, presidente dell’Associazione nazionale esercenti funiviari. “Chiudere gli impianti significa ammazzare la montagna”.

Sempre più in alto!

E c’è di peggio: visto che, statistiche alla mano, le stazioni invernali sotto i 1500 metri di quota sono già chiuse o in via di fallimento, la tendenza è quella di costruirne sempre più in alto, aggredendo ghiacciai e ambienti d’alta montagna con impianti ad alto impatto ambientale, come il contestatissimo collegamento tra Val d’Ayas e Valtournenche attraverso il Colle Superiore delle Cime Bianche, ancora in fase di studio. O il Matterhorn Alpine Crossing, già in costruzione, che collegherà il Plateau Rosa direttamente alla vetta del Piccolo Cervino: a 3821 metri, la più alta funivia d’Europa. Dopodiché, ci resta solo l’assalto al cielo.

Un assalto che peraltro è iniziato da molti anni, forzando la meteo agli interessi dello sci di massa. La neve artificiale (o programmata, come dicono con grazioso eufemismo gli operatori del settore) è oggi indispensabile anche in caso di neve naturale. Lo conferma Andy Varallo, giovane presidente del Superski Dolomiti, presentando la stagione sciistica 22/23 dell’Alta Badia: “Ha già nevicato trenta centimetri e altri trenta sono attesi prima di Natale” ha detto in tono (quasi) trionfale. Aggiungendo subito dopo che è grazie ai cannoni che una pista come la Gran Risa sarà pronta per le gare. Cannoni a basso consumo e calibrati al punto giusto, per l’amor di dio, ma il fatto resta: madre natura da sola non ce la fa più.

La buona notizia invece viene dai “consumatori della montagna”. Se gli operatori economici restano compattamente ancorati a un modello di sviluppo antiquato, gli utenti sono un popolo più fluido. Gli sciatori di pista sono in costante diminuzione in tutto il mondo, come era stato certificato già nel 2017 dall’International Report on Snow & Mountain Tourism, mentre nel 2018, ultima stagione invernale prepandemica, nella sola Valle d’Aosta è stato registrato un calo di presenze del 10 per cento. Un trend che anche quest’anno si confermerà, in parte a causa dell’aumento dei prezzi dovuto ai costi energetici (fino a +18 per cento il solo skipass nella stagione 22/23); in parte perché lo sci di pista sta perdendo popolarità, in qualche modo è sempre meno sexy, soppiantato da altre discipline più sostenibili.

Diversificazione e destagionalizzazione

Dunque sembra che il popolo degli sciatori sia pronto ad abbracciare una nuova filosofia che, sempre Max Cassani, riconduce alle due parole chiave: diversificazione e destagionalizzazione. Si continua a sciare su pista finché si può, ma quando il bilancio è negativo (costi di gestione troppo alti, aggressione all’ambiente naturale) si può fare anche altro, magari utilizzando gli impianti rimasti aperti non per lo sci ma per il trasporto delle persone, come già accade per esempio in Val Germanasca grazie a una cooperativa locale. È l’opinione espressa anche da Maurizio Dematteis nel suo recentissimo libro “Inverno liquido”: la fine dello sci di pista è dietro l’angolo. “Luca Mercalli afferma che alle stazioni sciistiche ad alta quota rimangono circa 40 anni di vita. Si tratta di un orizzonte temporale a cui gli amministratori devono guardare per pensare a modelli diversi di sviluppo” ha detto lo scrittore in un’intervista a Lo Scarpone.

Sono d’accordo, evidentemente. Perché non è vero che la montagna, come affermano i gestori di impianti, senza lo sci è morta. La montagna per chi la ama è viva in qualsiasi stagione e in qualsiasi condizione. I terreni alpinistici a 4000 metri diventano fragili per via del riscaldamento? Allora scenderemo a 3000 o più in basso, riscoprendo un mondo intero di cime, itinerari, panorami di incredibile ricchezza. Le piste sono puro ghiaccio di neve artificiale e costosissima? Allora andremo per boschi, torrenti, vallate, con sci e ciaspole e ramponi, e saremo felici.

Ma per fare questa semplice rivoluzione culturale ci vuole anche l’appoggio convinto della politica, delle istituzioni, delle comunità. Ci vuole un’economia più fluida e aperta, e tanta nuova formazione. Il “mestiere” della montagna è da reinventare: lo sta facendo egregiamente l’Unimont di Edolo, che offre corsi di gestione del territorio a 360 gradi, da quest’anno anche con un master in inglese. E ci provano realtà più locali. C’è per esempio un gruppetto molto attivo che ha letteralmente rimesso in piedi la ricettività della Valle Gesso e, in collaborazione con il Parco delle Alpi Marittime e il Cai di Cuneo, macina iniziative. Una di queste riguarda un corso di formazione per operatori del turismo di montagna organizzato con l’AFP di Dronero: l’idea è quella di orientare alla montagna l’ormai obsoleto corso di Tecnico specializzato in ospitalità turistica, aggiungendo alle tradizionali materie di legislazione turistica, sicurezza e conoscenza del territorio, quelle relative alla tecniche di progressione sicura in ambiente, la gestione degli incidenti, gli obblighi burocratici per la gestione di un rifugio alpino e le pratiche per rendere sostenibile la struttura, i laboratori di cucina locale, l’approvvigionamento in quota, la biodiversità alpina, le attività outdoor. Il corso finanziato dalla Regione Piemonte ha coinvolto anche il Collegio delle Guide e il Soccorso alpino. Il primo si è svolto l’anno passato e ha avuto notevole successo, il 2 dicembre è partito il secondo. Se qualche giovane in futuro avrà voglia di partecipare a questa piccola grande “rivoluzione della montagna”, può informarsi presso segreteria.dronero@afpdronero.it

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5 Commenti

  1. In pompa magna il governatore Fontana ha portato in val di Scalve 30 mln,risultato : piste di Colere chiuse ( le più belle della bergamasca) , il paese di Colere senza una banca.
    Molto fumo e poco arrosto.

  2. Gran bell’articolo, ottime – anche se dolorose – riflessioni e … prendiamo spunto. Sciare su lastre di ghiaccio programmato davvero non è più divertente e quindi non ha più senso.

  3. A quando le piste fatte con plastica, pneumatici e quant’altro riciclati e sempre aperte ?
    Potrebbe essere una soluzione “ecologica” che accontenterebbe tutti, anche gli abitanti del mare.
    Forse scomparirebbero cannoni, gattoni e valangone da fuoripistaioli.

  4. Solo notizie infauste.
    Mi sto rompendo l’anima e ci sto rimettendo l’ anima con questi commenti. Evito di fare altri commenti e cancello il sito. Basta.

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