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Pinelli: la “montagna sacra” del Gran Paradiso è solo un capro espiatorio per auto-assolversi

L’antico rituale ebraico prevedeva che nel giorno dell’Espiazione il Sommo Sacerdote trasferisse su un caprone “espiatorio” tutte le colpe commesse dalla comunità durante l’anno appena trascorso. Colpe oggettive ma anche delusioni, disgrazie, frustrazioni derivate dalla divaricazione tra i buoni propositi e la loro effettiva realizzazione. L’innocente caprone, carico di quel simbolico fardello, veniva scacciato dai confini della comunità e abbandonato nel deserto, dove ad accoglierlo si riteneva ci fosse il demone Azazel. Da quel momento tutti, indistintamente, si sentivano assolti e tiravano un sospiro di sollievo. “Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi”. La frase di San Giovanni Battista si riferiva esattamente a quell’antica usanza, ribaltandone tuttavia in parte il significato.

Qualche giorno fa, in occasione di un apposito convegno, un gruppo di persone per bene, appartenenti in senso stretto o lato all’orizzonte dell’alpinismo, si è impegnato a rinunciare da ora in avanti all’ascensione di un specifica montagna del Parco Nazionale del Gran Paradiso, in omaggio al valore del “Limite”. Limite troppo di frequente travalicato dalla comunità alla quale costoro reputano di appartenere, macchiandosi di colpe come il superomismo atletico, la competitività estrema e totalizzante, l’auto celebrazione smaccata, l’indifferenza di fronte alla crescente aggressione del turismo speculativo e l’antropizzazione turistica delle alte quote. Difficile dar loro torto riguardo a tali denunce. Lo scempio delle montagne italiane e la banalizzazione forzata della loro frequentazione sono davanti agli occhi di chiunque le ami davvero.

Tuttavia la trovata messa in atto per liberarsi dal rimorso sembra riflettere troppo da vicino il rito del capro espiatorio (Hircus emissarius), così come veniva praticato dagli Ebrei, dai Greci e da molti altri popoli del mondo. Anche se, ovviamente, declinato in positivo. Le colpe da espellere probabilmente non riguardano direttamente quel folto numero di aderenti al progetto, ma piuttosto sono attribuibili alla consorteria alla quale costoro sentono di appartenere. E dei cui errori immaginano di dover comunque rispondere, pur essendo personalmente innocenti.

Ma attenzione! L’inaccessibilità del Monveso di Forzo ( su questa sconosciuta montagna alla fine è caduta la scelta) non è stata in realtà proposta come modello “virale” al quale dovrebbero ispirarsi i comportamenti quotidiani di tutta la consorteria degli appassionati di montagna, rinunciando a mettere il piede su qualsiasi vetta; perché ciò equivarrebbe alla rinnegazione dell’alpinismo e alla sterilizzazione delle sue radici. Infatti, anche se oggi l’arte di scalare si è spesso rinchiusa nel bozzolo dell’esperienza appagante del gesto fine a se stesso, il raggiungimento della vetta resta il sigillo distintivo dell’alpinismo. La cima del Monveso è stata caricata di un significato simbolico circoscritto, non esportabile, proprio come il capro espiatorio, esiliandola fuori dai confini della pratica dell’alpinismo, pur ammantandola con i prestigi di una sacralità artificiale. Del resto, a quanto ne so, l’alpinismo aveva già di per sé – e da tempo- voltato le spalle a quella vetta di rocce insicure, contribuendo a rendere il tabù attuale del tutto indolore. L’esito tuttavia potrebbe non escludere un risvolto auto assolutorio per tutti coloro che invece serenamente continueranno ad agire all’interno dei confini dell’ alpinismo.

Lo ripeto per chiarezza, questa critica non intende mettere in dubbio l’onestà intellettuale dei mille firmatari del documento, ma riguarda l’eco del messaggio inviato all’esterno, l’interpretazione di comodo che potrebbe suggerire. Se solo una montagna merita di essere considerata sacra, quale tipo di rispetto è dovuto a tutte le altre? A me sembra che l’intera operazione rifletta modalità proprie delle religioni arcaiche, precedenti alla conquista storica delle responsabilità individuali, non scaricabili automaticamente all’esterno della coscienza, attraverso rituali e sacrifici collettivi. Per liberarsi da tali imbarazzanti paralleli magico-religiosi i promotori attuali si sono affrettati a specificare con insistenza che l’iniziativa ha per loro un carattere laico. Niente in comune con il Kailash e le altre montagne dell’Asia la cui ascensione sarebbe considerata sacrilega perché abitate dagli dei.

Con il dovuto rispetto, su questo ho i miei dubbi. Non tanto perché i promotori stessi continuano a parlare di “Montagna Sacra”, pur tra molti distinguo; ma soprattutto perché oggi troppo spesso si ama usare il termine “laicità” come una carta velina per impacchettare decorosamente pulsioni provenienti da un passato arcaico che è più conveniente non mettere a nudo. Il caprone, disperso nel deserto, torna a volte a bussare alle nostre porte, mascherato da laicità. Tra parentesi, se sulla vetta del Monveso si trovasse una vecchia croce, i proponenti la smantellerebbero in nome della loro sacralità laica? Quello si che sarebbe un punto a favore del progetto!

Questo piccolo evento, che io reputo destinato comunque a non lasciare grandi tracce, suggerisce ulteriori riflessioni. Se l’esaltazione del valore del limite vuole liberarsi davvero dalle scorie della ritualità arcaica di stampo religioso e magico, dovrebbe includere un sacrificio personale, un’ auto-limitazione individuale in qualche misura sofferta. Verrebbe da chiedersi: quanti tra i firmatari del documento che opta per l’inviolabilità del Monveso di Forzo avevano in animo di scalarlo, e ora, con personale sofferenza interiore, hanno rinunciato a farlo? Dirò di più, quanti avevano sentito nominare quella montagna, prima di apporre con entusiasmo la loro firma in calce al documento? A uno storico delle religioni potrebbe venire in mente l’antica pratica del “doppio facile”, così come la raccontava Mircea Eliade. Ma il discorso ci porterebbe eccessivamente lontano. Restando  in argomento, è troppo comodo sacrificare (sacri-ficio, uguale a rendere sacro) una montagna sconosciuta e quasi totalmente priva di attrattive, mantenendo intatti i propri progetti riguardanti l’ascensione di tante altre montagne ricche di fascino, di prestigio e, magari, di ritorni di immagine garantiti. Anzi, avendo trasferito i rimorsi della propria comunità sulla groppa di quel povero caprone di roccia instabile, posto a cavallo tra il Piemonte e la Valle d’Aosta, può diventare più agevole riprendere le vecchie abitudini, assolti da ogni presunta colpa (Ecce Agnus Dei…).

Dico presunta, perché anche l’enfatizzazione del valore simbolico del “limite” contiene margini di ambiguità, al di là delle ragioni oggettive giustamente addotte e riassunte all’inizio di questo mio breve testo. All’interno dei comportamenti di qualunque normale frequentatore delle montagne come può essere tradotto il “limite” che ci viene proposto? Forse bisognerebbe specificarlo meglio. In realtà basta l’incontro “by fair means” con la wilderness montana a indicare, anche impietosamente, a ciascuno i propri limiti. Allo stesso tempo suggerendoci la possibilità di superarli, purché con umile consapevolezza. Come è stato scritto, i confini li conosce solo chi ha l’ardire di affacciarsi al di là. E di oltrepassarli, a volte, per chiudere il cerchio toccando quella ineguagliabile calamita di sogni che rimarrà sempre la vetta.

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5 Commenti

  1. Una bellissima riflessione sulla superficialità e sull’ipocrisia dell’essere umano che continuando così con molta probabilità sarà destinato ad estinguersi , (speriamo di no ). Poco rispetto per la terra ma in particolar modo per se stessi inteso come genere umano , poco rispetto anche per le generazione future di alpinisti in erba che si trovano un divieto carico di ipocrisia .

  2. Monveso! Chi era costui?
    Era meglio optare per il Monviso.
    Oppure invitare ad astenersi per un anno da:
    Recensioni gite su internet;
    Foto di vetta in atteggiamento di vittoria;
    Utilizzo termine “meteo fotonico” ;
    etc.

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