AlpinismoAlta quota

Nanga Parbat, Broad Peak e K2. Cazzanelli fa un bilancio a freddo della sua estate a 8000 metri

La spedizione in Himalaya e Karakorum condotta nello scorso mese di luglio dalle guide alpine della Valle d’Aosta è stata sicuramente uno degli eventi più importanti sulla scena alpinistica italiana e internazionale di quest’anno. François Cazzanelli, Emrik Favre, Pietro Picco, Roger Bovard, Jerome Perruquet e Marco Camandona, nel giro di poche settimane, hanno inanellato una straordinaria serie di salite.

La “maratona” è cominciata sulla parete Diamir del Nanga Parbat, dove Cazzanelli e Picco hanno aperto “Valle d’Aosta Express”, una via nuova che sale indipendente per circa 2000 metri per poi congiungersi con la classica Kinshofer. Pochi giorni dopo l’intero gruppo ha raggiunto la vetta, proprio salendo lungo la Kinshofer, con Cazzanelli che ha completato l’ascensione nel tempo record di 20 ore e 20 minuti. Dopo il trasferimento Karakorum è arrivata la vetta del Broad Peak per Picco e Camandona, mentre Cazzanelli, impegnato ancora in una salita in velocità si è fermato per prestare soccorso ad uno scalatore britannico in difficoltà. Infine la sofferta ascensione dello Sperone Abruzzi al K2, per Picco, Perroquet e Cazzanelli. Il tutto nell’arco di meno di 30 giorni.

Dopo lo stupore e l’entusiasmo per questi bellissimi risultati, ad un paio di mesi di distanza dalla conclusione della spedizione, abbiamo voluto tracciare con François Cazzanelli un bilancio “a freddo” dell’esperienza, per mettere in luce gli obiettivi raggiunti, quelli solo sperati e dare uno sguardo alle prospettive future… 

Quella dello scorso mese di luglio in Himalaya e Karakorum sicuramente è stata una spedizione da cui avete portato a casa delle belle soddisfazioni. È un risultato che vi aspettavate o è stata una sorpresa anche per voi?

Quando abbiamo reso noto il programma di ciò che volevamo fare in tanti hanno espresso perplessità: era davvero tanta roba! Quando metti giù un piano del genere ci speri, però sapevamo anche noi che le chance che andasse tutto così come avevamo previsto non erano poi molte. Dai, ci abbiamo creduto e la fortuna è stata dalla nostra!

Parliamo del modo in cui avete realizzato queste salite, che sono all’insegna della velocità e della leggerezza, che è un po’ lo stile che hai già messo in pratica nelle tue salite sulle Alpi e l’anno scorso l’avevo all’Ama Dablam e al Manaslu. Questo approccio è un obiettivo a sé stante o è uno strumento per raggiungere altri risultati?

Diciamo che la velocità può anche essere un obiettivo a sé stante, anche preferisco non parlare di ricerca del “record”, perché questa parola in montagna lascia un po’ il tempo che trova. Però il cronometro è uno dei rari elementi oggettivi di confronto che possiamo avere. In prospettiva per me essere veloce in montagna non è un obiettivo fine a se stesso, ma qualcosa che mira ad altro: questa velocità a me piace sfruttarla per costruirmi la possibilità e le capacità di affrontare esperienze e sfide nuove. Sul Nanga ad esempio, abbiamo sfruttato la velocità per aprire una via nuova, che altrimenti non sarebbe stata possibile, perché sapevamo che, soprattutto nella parte bassa della parete, una volta arrivato il sole, le condizioni si sarebbero deteriorate rapidamente rendendo l’itinerario pericoloso per la caduta di pietre e ghiaccio.

La via che avete aperto al Nanga sale indipendente fino a circa 6000 metri e poi si inserisce nella via Kinshofer all’altezza del campo 2. È una visione abbastanza innovativa su un 8000: una via che ha senso in sé, senza puntare alla vetta…

Sì, è una via particolare, un po’ per il motivo cui hai appena accennato, un po’ perché probabilmente il seracco sotto cui siamo passati è lo stesso il cui crollo causò la morte di Gunther Messner nel 1970, durante la disperata discesa dopo che lui e Reinhold avevano avevano salito il versante Rupal. Certo non abbiamo tracciato la “via del secolo”, per la quale ci daranno il Piolet d’Or. Di fatto si tratta di una variante della Kinshofer, ma comunque una variante che sale autonoma per 2000 metri. In realtà io speravo di riuscire a far arrivare la via al campo 3, ma proprio dove volevamo prendere la goulotte che ci avrebbe portato più in alto, sono cominciate le scariche e abbiamo dovuto seguire la fascia rocciosa più sicura verso sinistra, che ci ha condotto verso la Kinshofer. Anche questo tratto comunque non si è rivelato facile, anzi sono stati dei tiri belli tosti!. Diciamo che l’obiettivo della salita era quello di staccarsi un attimino dal “carrozzone” che si crea sugli 8000. Insomma, abbiamo cercato di guardarci intorno e immaginare qualcosa di nuovo. Cosa che avevamo fatto anche nelle fasi di acclimatamento, quando, invece di fare su e giù dai campi bassi della Kinshofer, abbiamo tentato il Genalo Peak, un 6000 lì accanto, dove abbiamo salito una cresta che non saprei dire se se stata già percorsa. Lì siamo arrivati a 6100 metri e poi abbiamo dovuto scendere per la troppa neve.

Più volte nel raccontare la vostra salita avete sottolineato l’importanza della squadra. In questo tipo di alpinismo così leggero e veloce, che cosa si intende per squadra?

Secondo me la squadra, in questo caso, ha un ruolo fondamentale nella parte di preparazione della spedizione, dove ognuno di noi si è preso dei compiti precisi. Sulla montagna la squadra si identifica con la cordata. Quando questo team funziona bene non c’è soltanto una condivisione dell’impegno e della fatica, ma anche la certezza di poter sempre contare su qualcuno al tuo fianco e questo ovviamente rende più forti. È chiaro: le cordate da due sono più forti di quelle da uno, in squadra si possono immaginare e realizzare obiettivi più ambiziosi. Poi siamo stati un’ottima squadra anche nel complesso. Eravamo un gruppo numeroso, eppure siamo sempre andati d’accordo: non abbiamo mai avuto un problema fra noi, non abbiamo mai bisticciato, ci siamo sempre appoggiati gli uni agli altri e questo è stato sicuramente fondamentale nel riuscire a raggiungere gli obiettivi molteplici che ci eravamo posti.

Veniamo al Broad Peak e al salvataggio. Non è la prima volta che tu, durante una spedizione in altissima quota, lasci da parte il tuo obiettivo per intervenire in aiuto di qualcuno. Quanto è difficile in queste condizioni, mettere da parte le proprie ambizioni personali per soccorrere chi è in difficoltà?

Venendo dal mondo del soccorso alpino non mi è mai stato difficile rinunciare a un mio progetto per aiutare qualcuno. Credo che il principio fondamentale che spinge ad aiutare qualcun altro in difficoltà in alta montagna sia banalmente il fatto che, se succedesse a me spero ci sia qualcuno pronto a mettersi in gioco, come farei io. Poi è chiaro che quando torni a casa magari qualche rammarico ti viene… Nel caso del Broad Peak mi mancava circa mezz’ora per arrivare alla vetta e realizzare quello che era il mio obiettivo, ovvero salire la montagna in velocità, in un’unica soluzione e “a vista”, cioè senza aver fatto precedenti esplorazioni dell’itinerario. Il punto di riferimento era il record di Wielicki, che mi pare fosse di 17 ore e 50 minuti dalla base alla vetta, ed ero nei tempi giusti per migliorare questa prestazione. Insomma non nascondo che, a cose fatte, qualche pensierino all’opportunità sfumata l’ho fatto. Però poi, ripensando a come è andata la giornata, non mi pento di nulla.

Questa spedizione, per i suoi molteplici risultati, il modo cui sono stati raggiunti e il riscontro mediatico che ha avuto, secondo te può contribuire a marcare la differenza rispetto alle salite sugli 8000 realizzate con il supporto massiccio degli sherpa e l’utilizzo di ossigeno, che troppo spesso vengono presentate al pubblico come imprese di alto valore sportivo?

Spero di sì. Secondo me ogni tanto gli 8000 vengono banalizzati e mediatizzati malamente e troppo. Guardando molti media sembra che ormai gli 8000 siano solo ossigeno, corde fisse e turismo. Il rischio è che da una certa parte del pubblico questa cosa venga letta come un’impresa alpinistica. Sia chiaro, non condanno chi sale in questo modo. Credo che il fatto che ci sia tanta gente che scala gli 8000 con l’ossigeno e fa lavorare gli sherpa, le agenzie e la gente del posto sia un bene. Ricordiamoci che noi “usiamo” le nostre montagne da secoli per campare e vivere di turismo. Quindi, come guida alpina, non posso essere contro questa cosa. Ma, seguendo la logica che tanti media, soprattutto quelli generalisti applicano all’Himalaya e la Karakorum, allora bisognerebbe fare anche un articolo per ogni cliente che le guide accompagnano sul Cervino. Distinguere ciò che è l’alpinismo contemporaneo, con i suoi obiettivi attuali e innovativi da ciò che è turismo è importante. Non basta una bella foto fatta con la GoPro o col drone per fare una prestazione sportiva e un alpinista di fama mondiale. Penso alla nostra salita del K2, che certo non è stata un’impresa eccezionale, ma di sicuro è qualcosa di ben diverso e più impegnativo di quello che hanno fatto solo qualche giorno prima i gruppi saliti con l’assistenza degli sherpa, le bombole e i campi preparati e attrezzati. Poi, in tutta sincerità, devo dire che anche per quanto ci riguarda, viste le condizioni che abbiamo trovato, con il brutto tempo e la visibilità ridotta a zero, se non avessimo avuto con noi gli sherpa che avevano fatto la prima salita invernale e conoscevano a menadito la via dello Sperone Abruzzi, col cavolo che saremmo arrivati in cima! È una questione di chiarezza e onestà: bisogna dare alle cose il giusto peso e la giusta misura.

Tu sei sempre stato molto lucido nel individuare quelli che sono stati gli snodi fondamentali del tuo percorso alpinistico. Cosa rappresenta questa spedizione nella tua evoluzione?

Sicuramente è la chiusura di un ciclo e di una parte della mia vita. Il K2 è una delle rare montagne che ho sempre sognato e ho sempre voluto fare. Poi però bisogna anche tirare un bilancio alla fine di una spedizione. Per quanto mi riguarda è un bilancio assolutamente positivo dal punto di vista delle esperienze. Sotto l’aspetto dei risultati raggiunti invece direi che ci sono luci e ombre. Il Nanga Parbat è stato un successo: una via nuova e una salita in velocità su una montagna bella, sulla quale non nascondo che mi piacerebbe anche tornare, perché è un 8000 anomalo, dove fa più caldo che sugli altri e credo possa offrire la possibilità di sperimentare cose innovative. Nel Karakorum i risultati non sono stati altrettanto positivi. Il Broad Peak è andato come è andato per i motivi di cui già abbiamo parlato. Per quanto riguarda il K2 invece devo dire che ero partito con aspettative molto alte. Avevo intenzione anche lì fare una salita veloce, più veloce ancora di quella che abbiamo poi fatto. Qualcosa di simile a quello che ho realizzato sul Nanga. Non ci sono riuscito, o comunque non ci ho neanche provato. Sicuramente la vicenda del Broad Peak non ha contribuito positivamente. Sicuramente il meteo non era quello adatto. Alla fine, però, mi sono reso conto che volevo fare il K2 in velocità, ma che di fatto, prima di affrontare la salita, non ero mai andato oltre il campo base della montagna. Proprio al campo base stavo leggendo il libro “Malato di montagna” di Hans Kammerlander, dove lui racconta che, prima di salire l’Everest in velocità, ci aveva fatto ben tre spedizioni. Ecco, mi sono reso conto che, probabilmente, ho sbagliato l’approccio. Per tentare una salita in velocità sul K2 non basta arrivare lì un po’ spavaldi, avendo già fatto due 8000 in quel modo poco prima, ma bisognava metterci qualcosa in più. Il K2 è una cima difficile, complessa. Per realizzare un obiettivo del genere su una montagna così serve conoscenza, esperienza diretta, studio. Probabilmente scalare il K2 in velocità e come dico io “a vista” sarà una sfida importante per le generazioni future. Per quanto mi riguarda… mi sono reso conto che avrei dovuto “studiare” di più!.

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