Storia dell'alpinismo

Everest 1996, la tragedia delle spedizioni commerciali

Nel pomeriggio del 10 maggio 1996, sulla cresta tra il Colle Sud e la vetta dell’Everest, scatta una delle trappole più famose della storia dell’alpinismo.

Nella notte precedente, e durante la mattinata, grazie al meteo perfetto, una lunga fila di alpinisti e di sherpa si snoda verso quota 8848 metri. Qualcuno si ferma per la fatica e l’acclimatazione insufficiente, ma ventiquattro alpinisti (più quattro dal Tibet) ce la fanno. Gli incroci tra chi sale e chi scende sulla cresta sommitale e sullo Hillary Step, un salto quasi verticale, costringono ad attese e ritardi.   

Poi una perturbazione improvvisa e violenta si abbatte sull’Everest. La discesa, sempre impegnativa per chi ha speso molte energie in salita, diventa una fuga per la vita. Qualcuno si lascia morire sulla cresta, altri crollano sul pianoro del Colle Sud dove la bufera rende impossibile orientarsi. Altri ancora, nonostante i congelamenti, riescono a trascinarsi fino alle tende. Il bilancio della tragedia è di otto morti, che si aggiungono ai quattro dei giorni precedenti e successivi. Le vittime sono in buona parte clienti di due spedizioni commerciali, organizzate dall’agenzia Adventure Consultants del neozelandese Rob Hall, e dalla Mountain Madness dello statunitense Scott Fischer. La competizione tra i due leader contribuisce al dramma.

Prima e durante l’ascensione, Hall ha spiegato ai clienti che alle 12 bisogna iniziare a scendere, anche se si è in vista della cima. Invece proprio lui, che ha già salito due volte l’Everest alla testa di spedizioni commerciali, arriva in vetta alle 15 con il cliente Doug Hansen, che ha dovuto rinunciare in passato. E’ un errore fatale. In discesa Hansen scompare. Hall raggiunge la Cima Sud, 8750 metri, dove crolla privo di forze. Le sue chiamate con un satellitare alla moglie Jan Arnold, in attesa della loro prima figlia, sono una tragedia nella tragedia. Scompare anche Andy Harris, una guida della spedizione di Hall che cerca di soccorrere il collega. Fischer si spegne più in basso, tra la Cima Sud e il Colle. 

L’eroe della giornata è Anatolij Boukreev, kazako di etnia russa, uno dei migliori alpinisti himalayani di sempre, guida della spedizione di Fischer. Mentre scende nella bufera Boukreev accelera, e per questo verrà accusato di aver abbandonato i clienti. Invece torna al Colle Sud, risale con un respiratore e una bombola piena alla ricerca degli altri. Grazie a lui tornano vivi negli Stati Uniti, Charlotte Fox, Sandy Hill Pittman e Tim Madsen. 

Nelle stesse ore, sul versante tibetano, tre membri di una spedizione indiana, Tsewang Samanla, Dorje Morup e Tsewang Paljor, muoiono in discesa dopo aver raggiunto la vetta. L’indomani tre giapponesi passano in salita e in discesa accanto a Paljor, che agonizza a 8600 metri di quota, ma non lo aiutano. Il suo corpo, brutalmente indicato come “Scarponi verdi”, diventerà un punto di riferimento sul percorso. 

Qualche morto sull’Everest non fa notizia, otto in un giorno (e dodici in due settimane) sì. La presenza sulla montagna dello scrittore USA Jon Krakauer, cliente di Rob Hall e inviato del magazine Outside, e più in basso di un team cinematografico della IMAX, contribuiscono a mediatizzare la tragedia. Un anno dopo il libro di Krakauer Into Thin Air, Aria sottile nella versione italiana, diventa un best-seller mondiale. Lo seguono i volumi scritti da altri protagonisti del dramma, da Boukreev a Lene Gammelgaard. Pubblica un memoriale il chirurgo texano Beck Weathers, cliente di Hall, che viene dato per morto al Colle Sud, si trascina fino alla tenda, e poi viene evacuato su un elicottero dell’Esercito nepalese pilotato dal tenente colonnello Madan Khatri Chhetri. Lo stesso pilota salva la vita a Ming Ho Gau detto “Makalu”, leader di una spedizione di Taiwan. A Dallas, a causa dei congelamenti, Weathers subirà l’amputazione dell’avambraccio destro, delle dita della mano sinistra e del naso, che verrà ricostruito con tessuto prelevato dalla fronte e dall’orecchio. 

La tragedia del 1996 rende celebre l’alpinismo delle spedizioni commerciali. Il primo cliente pagante della storia, il petroliere texano Richard Bass, è arrivato in cima nel 1985 con la guida David Breashears. Dal 1990 le spedizioni commerciali sono diventate numerose. A organizzarle,tra gli altri, sono gli americani Todd Burleson, Pete Athans ed Eric Simonson, e il neozelandese Russell Brice. Il leader del nuovo business è Rob Hall, che tra il 1990 e il 1995 porta ben 39 clienti sulla cima. Nel 1996 la sua tariffa (65.000 dollari, esclusi l’equipaggiamento personale e il volo per Kathmandu) è la più alta di tutte. Ma la legge del mercato è spietata. “Chi acquista una spedizione all’Everest ottiene quello per cui ha pagato. Dal Tibet si paga meno, ma finora nessuna spedizione commerciale da nord è arrivata sulla cima” spiega Jon Krakauer su Outside. 

L’Everest delle spedizioni commerciali non è alpinismo, ma turismo” scrive Reinhold Messner. Altri hanno toni più duri, ma cadono in parte in contraddizione. Ci si lamenta che l’Everest sia sul mercato, ma non si fa lo stesso per il Monte Bianco, il Cervino e le altre vette dove le guide accompagnano i loro clienti da sempre. 

Quando l’emozione si placa, si capisce che la presenza di guide e clienti non è l’unico problema. “In realtà gli alpinisti meno esperti e qualificati sulla montagna non erano i clienti delle guide, ma i componenti delle spedizioni tradizionali” spiega ancora Krakauer. “La loro presenza era una grave preoccupazione per tutti” aggiunge a proposito di “Makalu” Gao e degli altri alpinisti di Taiwan che un anno prima si erano messi nei guai sul McKinley-Denali, in Alaska. Sull’Everest, nel 1996, il taiwanese Chen Yu-Nan esce senza scarponi da una tenda al campo III, e si uccide con un volo di 800 metri lungo la parete del Lhotse.  

Crea altrettanti problemi la prima spedizione sudafricana all’Everest, salutata da Nelson Mandela. Al campo-base, iniziano gli scontri tra gli alpinisti e il capospedizione Ian Woodall, un ex-ufficiale che ha mentito sul proprio curriculum e sui fondi. Secondo Andy de Klerk, un membro del team che torna a casa, “almeno due alpinisti non sapevano come allacciarsi i ramponi”. Il 25 maggio Bruce Herrod scivola in discesa sullo Hillary Step, resta appeso a una corda e muore. Il suo corpo resterà lì per quattro anni.

Dopo la tragedia la storia va avanti. Arriva in vetta il team che sta girando Everest, il documentario in formato IMAX diretto da David Breashears, e che ha nel cast l’americano Ed Viesturs, la spagnola Araceli Segarra e Jamling Tenzing Norgay, il figlio di Tenzing Norgay che ha compiuto la prima ascensione nel 1953. La voce narrante sarà dell’attore Liam Neeson. Poi tocca allo svedese Göran Kropp, che ha percorso in bicicletta i 13.000 chilometri da Stoccolma a Kathmandu. Il 23 maggio l’altoatesino Hans Kammerlander arriva in vetta dal Tibet, e stabilisce un altro record scendendo sci ai piedi. 

Negli anni che seguono, fino a oggi, le spedizioni organizzate e guidate diventano di fatto il solo modo per salire l’Everest. Le tariffe, da 50.000 dollari, arrivano a 130.000 e oltre, esclusi equipaggiamento e volo. I clienti morti nel 2001, nel 2007 e nel 2019 fanno uscire titoli vistosi sui giornali, e lo stesso accade per le valanghe del 2014 e del 2015 che uccidono decine di sherpa sulla seraccata del Khumbu. Le vittime, però, sono l’1% delle ascensioni vittoriose, e lo 0,5% del totale degli alpinisti impegnati sulla montagna. Secondo Alan Arnette, alpinista e blogger, chi decide di investire i suoi risparmi sull’Everest non è un suicida, e fa un investimento con buone probabilità di successo. Quasi tutti, a casa o al campo-base, leggono Aria Sottile.      

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