Storia dell'alpinismo

Ogre, la discesa impossibile

“Sull’Ogre? Sono venuto giù strisciando”. Basta questa frase di Doug Scott, che se ne è andato lo scorso 7 dicembre, per descrivere l’epica prima salita dell’Ogre. L’Ogre, o Baintha Brakk, è un Settemila localizzato in Pakistan, nell’area del Gilgit-Baltistan. Una montagna scoscesa che offre ai suoi aspiranti elevatissime difficoltà tecniche su granito e ghiaccio. Per intenderci la seconda salita alla vetta, a opera di Urs Stöcker, Iwan Wolf e Thomas Huber, avviene nel 2001, ventiquattro anni dopo la prima ascensione. In questo quarto di secolo alcuni ci hanno provato, la verticalità della montagna appassiona e attrae i migliori scalatori al mondo, ma nessuno ci è riuscito. È un test dell’estremo, una salita in cui si mette tutto in gioco. Così è stato anche per Scott quando nel luglio del 1977 ha toccato i 7285 metri dell’Ogre insieme al compagno Chris Bonington. Una salita innovativa, dal punto di vista delle difficoltà. Una scalata che ha permesso di allargare l’orizzonte di quel che un uomo è capace di compiere ad altissima quota.

La salita

Manca poco al termine della primavera quando una piccola spedizione inglese inizia il suo avvicinamento al Settemila inviolato. Raggiungerlo non è facile. Bisogna prima spostarsi vero il nord del Pakistan e poi risalire in parte il ghiacciaio Biafo. A un certo punto ecco che compare l’inconfondibile sagoma verticale dell’Ogre con le sue pareti di roccia nuda. È talmente verticale che ghiaccio e neve non riescono a fare presa rivestendo la montagna. Al suo fianco si trova un altro colosso, per difficoltà e complessità, il Latok.

Della spedizione fanno parte Mo Anthoine, Clive Rowland, Nick Estcourt, Tut Braithwaite, Doug Scott e Chris Bonington. Il 4 giugno sono in marcia verso la montagna, pochi giorni dopo al campo base pronti a iniziare i lavori sulla montagna. Il lavoro della squadra è sinergico, hanno un obiettivo comune e fanno tutto il possibile per raggiungerlo. Lavorano duramente fissando corde e campi fin sopra i seimila metri. Un lavoro che richiede tempo e fatica. Tutti i componenti della spedizione si spendono allo stesso modo, non c’è un vero capospedizione. Si scala in autogestione, senza un leader. Una scelta sicuramente affascinante, ma di difficile applicazione soprattutto nel mondo alpinistico. Quella spinta egocentrica (in senso positivo) che porta verso l’alto, verso il risultato, alla fine rischia di prendere il sopravvento e rompere il clima di cooperazione. Ecco che una mattina Bonington decide di partire per la vetta insieme a Escourt. Non hanno intenzione di attendere gli altri, vogliono la cima. Tre giorni dopo si muove il resto della spedizione. Salendo si imbattono nei due compagni. Non hanno raggiunto la vetta, sono fiaccati dalla scalata, al limite. Soprattutto Escourt che decide di lasciar perdere dopo aver toccato la vetta occidentale, la più bassa. Braithwaite viene invece costretto alla rinuncia da una caduta di massi che gli procura una ferita alla gamba.

Scott, Bonington, Anthoine e Rowland proseguono insieme. Raggiungono i settemila metri, con l’aria rarefatta la scalata si fa sempre più difficile. Davanti stanno Doug e Chris, ormai è pomeriggio, devono sbrigarsi se vogliono riuscire. Eccoli, manca poco, ancora qualche metro. È il 13 luglio del 1977, la luce del sole sta calando, il vento fischia nelle orecchie. Due uomini stanno in piedi sul punto più alto, l’Ogre è vinto. Qualche decina di metri più in basso Mo e Clive stanno iniziando la discesa, è troppo tardi. Sanno bene che sarebbe pericoloso raggiungere la vetta al buio.

Una terribile discesa

Dopo la vetta gli alpinisti sanno bene che non bisogna rilassarsi, per quanto il nostro cervello sia portato a farlo. L’adrenalina cala, le endorfine invadono ogni angolo del nostro corpo. Siamo soddisfatti, ed esausti. Ma le difficoltà non sono per nulla finite, anzi. Bisogna scendere, arrivare al campo base prima di festeggiare. Scott, che negli anni della sua maturità ha sempre raccontato con un sorriso divertito questa vicenda, sull’Ogre ha imparato più di ogni altro che la vera scalata si conclude sono quando i piedi possono stare ben piantati a terra.

I due iniziano a preparare la prima doppia, va Scott per primo. Bisogna scendere in fretta, ma il destino a volte è bizzarro. Doug non si accorge di una colata ghiacciata, perde la presa, scivola e precipita nel vuoto, per fortuna c’è la corda a tenerlo. Sbatte violentemente contro la roccia, il dolore è lancinante. Le ossa delle gambe si sono frantumate, è l’inizio del calvario. I compagni sulla via del rientro vedono la scena ma non possono aiutarlo. Solo Bonington può prestargli soccorso. Ormai è tardi per poter pensare di continuare la discesa, devono bivaccare. Sono all’addiaccio, senza sacco a pelo, ma in qualche modo superano la notte.

Al mattino ripartono, cercano di scendere rapidi, ma sono comunque lenti. A un certo punto Bonington vola, cade per sette metri rompendosi qualche costola. Fa nulla, si continua. Chris davanti, tossisce e sputa sangue, alla frattura si è aggiunta una forte polmonite. Dietro striscia Doug. Sono immersi nella tempesta, che nel frattempo si è alzata. Sono allo stremo, ma sanno che ogni metro guadagnato è un passo verso la salvezza. Nessuno li sta cercando, nessuno li andrebbe a recuperare. Ne sono più che consapevoli. Per otto giorni si trascinano sulla montagna, fino al campo base.

Quando pensano di essere finalmente salvi ecco un nuovo boccone amaro: il campo base non c’è più. Dopo qualche giorno i compagni li hanno dati per morti facendo le valigie. Devono andare avanti, almeno fino al primo villaggio, per vivere. È un’odissea dalla conclusione fortunata. Dopo oltre una settimana i due si ritrovano tra le braccia dei compagni. Sono fortemente debilitati e necessitano di urgenti cure mediche, ma sono vivi e possono raccontare la loro incredibile scalata.

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Un commento

  1. In italiano avventore vuol dire “cliente di un negozio” e niente ha a che vedere con gli alpinisti, per quanto intrepido e avventurosi.

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