Curiosità

Storia di Oskar, guida di Solda (1)

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Con mano rugosa, ma sicura, il vecchio Oskar pulì lentamente il velo di condensa che appannava il vetro della piccola finestra e poi, sbirciando dallo spiraglio trasparente, osservò l’esterno. "Ancora neve" disse a mezza voce, più a sé stesso che agli altri che occupavano la grande stanza. Gli altri – Mathias e Verena – erano i suoi biondissimi nipoti, che nella pace della calda stube stavano appartati a scarabocchiare quaderni di scuola. Inizia così il racconto scritto da Enrico Farina, che ha per protagonista Oskar, storica guida alpina della valle di Solda, e le sue avventure tra pareti scoscese e leggende misteriose.

"Ancora neve… guaet, guaet…" ripeté, allontanandosi con un sorriso appena percettibile sul viso solcato da rughe. Era già la quarta nevicata che imbiancava la valle di Solda, l’inverno era iniziato da poco e il manto nevoso aveva ormai raggiunto uno spessore considerevole. Da anni non si verificavano nevicate così abbondanti.

Se gli operatori turistici gioivano, pensando alla trasformazione di quell’oro bianco in monete tintinnanti, Oskar, al contrario, gioiva per altri motivi. Quel tintinnio a lui non interessava più di tanto o, almeno, gli interessava nella misura in cui neve e ghiaccio gli avevano permesso di guadagnare quel giusto per condurre una vita serena, anche se particolarmente dura. Una lunga vita da guida alpina.

Accarezzando delicatamente la nuca del piccolo Mathias, pensando a quell’abbondanza di neve che alimentava i grandi ghiacciai, sussurrò tra sé e sé: “Danke, meine liebe Molly…”. Molly Cronohan era una maga uscita dalle saghe irlandesi delle quali Oskar, da giovane, era stato grande ed appassionato lettore. Ma i suoi ricordi, oltre a quella maga, andavano spesso alla fata Durkfulla e a Peggy Barry, così come a Kathleenn per non dimenticare l’incredibile Breedya.

Non c’era più molta chiarezza nelle irreali memorie di Oskar ma a lui questo non pesava più di tanto e così si permetteva di mescolare, con la massima disinvoltura, gnomi con elfi e fantasticare con folletti misteriosi. Folletti bizzarri come i leprecani, ad esempio, che trascorrevano la vita a costruire scarpe o, i più oscuri, cluricani che pensavano solo ad ubriacarsi.

Quello delle saghe era un mondo ovattato ed impenetrabile che gli girava di continuo nella mente con ricordi confusi e le fiabe, che tanto lo avevano coinvolto, erano diventate, per lui, uno stile di vita. Ogni sua azione era proiettata verso quell’universo magico dove tutto era possibile e tutto era relazionato con una infinità di personaggi immateriali.

Oskar si era arrampicato ovunque ci fosse una parete rocciosa da arrampicare ed aveva scalato senza tregua per oltre quarant’anni dedicandosi maggiormente alla fascia di stupende montagne che circondano Solda e la sua valle. Quelle che definiva le “sue” montagne.  E in effetti lo erano. Pochi altri le avevano calcate così a lungo, con un’assiduità sconcertante, portando sulle “vie” i clienti più strani ed imprevedibili. E nelle sue cordate c’era sempre un cliente invisibile in più… una fata … uno gnomo … uno spiritello che si sceglieva, di volta in volta, e con il quale mentalmente dialogava.

Lui, era un taciturno, parlava poco con i clienti così come con i valligiani che, peraltro, frequentava con moderazione. Era raro vederlo nelle stubi fumose e buie dei bar, anche se qualche volta non disdegnava farsi una “Schnaps” con qualche altra vecchia guida e, al di là di bonarie manate sulle spalle, il discorso tra quei montanari non era particolarmente vivace.
“Wie geath’s Oskar?”
“Jo, jo  guaet… und du Hermann?”
“Jo, jo mir guaet, a recht guaet”.
“No zwoa Schnaps. Gerda…”

Così, il dialogo a monosillabi, si concludeva tra esigue parole e alcuni bicchierini di grappa bianca. Si capivano più ad occhiate che con l’alfabeto, però si capivano. Gente rude, ma in fondo buona come uno strudel appena sfornato.Il mondo di ghiaccio che lo attorniava lo aveva affascinato fin da piccolo quando trascorreva i mesi estivi nella malga degli zii, tra quelle “Gampenhöfe” fatte di sassi e tronchi. Mentre pascolava le poche mucche sotto la Vertainspitze sfogliava un immancabile libro di fiabe irlandesi. Di quei libri ne aveva diversi e, seppur fossero ormai consumati e sdruciti, li leggeva sempre e comunque con rinnovato interesse mettendo particolare attenzione alle immagini dei nanetti dalle bianche barbe che arrivavano fino alle babbucce e che, su un testone smisurato rispetto al corpo, dominava, immancabile, un lungo copricapo a tre punte.

Molly, era la sua maga preferita, ed era a volte maga, a volte fata a volte mamma e qualche rara volta … amante. Tutto si concentrava in lei. E in quella strana mistura che amalgamava leggende e saghe irlandesi con i ghiacciai di casa aveva trovato il suo equilibrio di montanaro prima e di guida alpina, poi.

Seppur solitario e taciturno era apprezzato, comunque, per la grande professionalità e dal senso di sicurezza che infondeva nei clienti. Questi provenivano dalle regioni più disparate, generalmente erano germanici e inglesi ma non mancavano escursionisti italiani molto affezionati a queste valli. Rarissimi gli austriaci che, dotati di molta esperienza, sapevano scalare da soli. Ancor più rara, la clientela francese.

Una volta salì sull’Ortles con un irlandese e, quell’ascensione fu, per Oskar, indimenticabile, perché ebbe l’opportunità di parlare a lungo delle saghe. Per la verità, parlò solo lui, visto che l’irlandese non le conosceva affatto. Ciò non evitò che al ritorno quasi si ubriacarono. La guida in onore dei cluricani e, Tim Barret, per la gioia di essere salito su quella cima prestigiosa.

Dopo aver infilato un altro ciocco nella verde stufa di maiolica che dominava una parte della stube, Oskar, si soffermò ad osservare le vecchie e sbiadite fotografie appese alle pareti di legno a fianco di un paio di ramponi e di una attempata e fedele piccozza.

A lato di questi strumenti, ai quali era ancora particolarmente affezionato, si trovavano, a loro volta appesi e ben infilati in un moschettone, alcuni chiodi da roccia, residui di tempi andati e, poco più in là vicino all’Erker, arrotolata con cura, una vecchia antiquata e sdrucita corda di perlon. Una delle tante che aveva logorato affidando ad essa la sicurezza dei suoi clienti. 

Nelle foto si intravedeva tutta la filosofia alpinistica degli anni sessanta, in cui si arrampicava con il cuore e con un’attrezzatura che stava a cavallo tra l’antico e il moderno. Nulla ancora circolava di quella strana ferramenta ultraleggera formata da maniglie Jumar  split, friend, dadi, stopper, e diavolerie varie … e poi, le piccozze, quelle di allora, avevano ancora la forma di piccozza e le “doppie” si facevano normalmente come si devono fare le doppie, scottandosi mani e spalla, strusciando, inevitabilmente, le tradizionali braghe di velluto.

Le discese di oggi, con quei marchingegni strani, non hanno più il sapore delle ormai dimenticate doppie mozzafiato nelle quali, stendendoti pressoché orizzontale, guardavi il vuoto con il viso in giù mentre, attanagliato dall’emozione, balzellavi ritmicamente quasi volando e assaporando quelle prospettive di un mondo rovescio. No, oggi si scende con la logica di una zavorra da calare nel modo più sbrigativo.

Le foto, appese, rappresentavano la valle di Solda con i ghiacciai che la lambivano completamente: verso sud il Cevedale, poi il Königsspitze, il Zebrù e poi la catena si chiudeva con l’Ortles, la cima più alta e sull’altro versante la Vertana, la cima dell’Angelo.. e via via questa lunga successione di cime aride e pietrose battute dal vento che si snodano nel Parco dello Stelvio.

Sotto a queste pareti lo spessore del ghiaccio era impressionante, per cercare di capire a quanto ammontava bisogna scrutare nel profondo dei crepacci, ma il buio pesto ne occultava le profondità mantenendo così il mistero. Del resto giù in fondo, in quei baratri bui, vivevano degli spiriti particolari. Quegli spiriti che erano antagonisti dei loro simili i quali, invece, aleggiavano sopra le cime e anche oltre a queste, su in alto, dove l’aria rarefatta è espressione di libertà totale e la sovranità degli spazi infiniti è indiscussa.

Molly interagiva con questi spiriti, quasi fosse lei stessa il Genius Loci di quel luogo. Ma forse lo era. E di notte la sua voce assumeva toni ed espressioni diverse, ora il sibilare del vento, ora i frastuono dei seracchi nel momento del collasso, ora il rumore sinistro delle pietre che,  al primo levar del sole, rovinano pericolosamente a valle.

Voci strane, che rimaste impigliate tra gli sfasciumi di cresta, imploravano attenzione. Ecco allora riaccendersi i discorsi fantastici degli elfi che occultavano cadaveri nelle foreste irlandesi o che si burlavano di sprovveduti ecclesiastici sempre pronti a banchettare in lussuose canoniche. E quando l’aurora imbiondiva le cime più alte sopra la coltre di nubi mattutine riappariva, puntuale, la bionda e bellissima fanciulla che folletti dispettosi avevano rapito in qualche sperduta contea.

Al ritorno del sole, ma forse era per la magia di Molly o Kathleen o di chissà chi, l’incantesimo si neutralizzava e la bella fanciulla rapita tornava alla casa del padre … e a riportarla era sempre lui, Oskar in persona…. e ogni volta la riceveva in sposa.

Sta di fatto, forse, perché fantasticando si era sposato molte volte, che nella vita reale non era mai riuscito a trovare moglie.

(continua…)

 

Enrico Farina

 

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