Storia dell'alpinismo

Cassin e la sud del Lhotse

È il 1973. Dopo il K2, il Gasherbrum IV e l’Antartide in Italia non sono più state organizzate spedizioni extraeuropee. È il momento buono per tentare di risolvere uno dei più grossi problemi alpinistici rimasti aperti: la parete sud del colosso himalayano del Lhotse. Qualcosa di accattivante, oltre 3.000 metri di parete verticale. Ghiacciata ed estrema.

La proposta non potè che venire da chi già si era affermato come una leggenda dell’alpinismo di quegli anni: Riccardo Cassin. Ottenuto l’appoggio del Cai e del Governo italiano, il tentativo fu fissato per la stagione premonsonica del 1975.

La preparazione della spedizione

Così, nella primavera del 1974, il capospedizione è a Kathmandu con l’amico Roberto Sorgato per effettuare una ricognizione della parete. Le fotografie si sprecano mentre i due raggiungono quota 5.300 metri, portandosi alla base della parete. Viene scelto il luogo dove installare il campo base.

Non vi sono segni che indichino il pericolo di scariche, vale la pena di provare. Rientrato in Italia resta a Cassin soltanto da scegliere la squadra. Vengono selezionati giovani formidabili. Nomi come Reihnold Messner, Sandro Gogna, Sereno Barbacetto, Mario Conti. E ancora, Gigi Alippi, Giuseppe Alippi, Fausto Lorenzi.

La partenza e la prime difficoltà

Il 10 marzo la partenza. Tappa a Teheran, poi Kathmandu, Lukla ed infine il trekking di avvicinamento al base. E li la brutta sorpresa. La spedizione perde il dottor Chierego, vittima del mal di montagna e costretto a rientrare in Italia. Basta poi un’occhiata alla montagna a Cassin per rendersi conto che la parete non è proprio quello che tutti si aspettavano. Nera, cupa e piena di neve. Con slavine che la spazzano dalla cima e che tante volte non arrivano nemmeno ai crepacci alla base. Si perdono nella verticalità della sud, travolgendo ogni cosa incontrino sulla loro strada.

La via scelta dal capocordata è impraticabile. Sarebbe troppo pericoloso avventurarvisi. Resta un’unica soluzione: ripercorrere la via tentata in precedenza dalla cordata giapponese, giunta fino a 7.000 metri. Altra difficoltà è quella di piazzare i campi, soprattutto nella prima parte. Ci vuole una ricognizione di Messner, Gogna e Anghileri, che arriva fino ai 6.000 metri, per trovare uno dei pochi punti protetti dove allestire campo 1.

Intanto proseguono i disguidi. Il resto dei materiali, tra cui la tenda principale, non arrivano, costringendo Cassin alla discesa fino a Chukhung, per controllare gli sherpa addetti al trasporto. Messner e Leviti nel frattempo attrezzano con le corde fisse il tragitto fino a campo 1 e si avventurano in alto per altri 300 metri. Ma il tempo nella notte volge al brutto. Cadono centimetri di neve e tutto viene ricoperto.

Mentre un’altra tegola si abbatte sulla spedizione: inaspettatamente Anghileri afferma di non sentirsela più e di voler tornare in Italia. Uno degli alpinisti di punta abbandona così il campo base.

Qualche giornata di monotonia e ricominciano le manovre. Il gruppo, nonostante tutto, è affiatato e lo spirito è di nuovo alto. Tocca ancora a Messner arrivare fino ai 6.600 metri e allestire campo 2, proprio all’inizio di un ghiacciaio pensile. E insieme a Giugiatti passa li la notte, tormentata dalle forti raffiche. Vento che non diminuisce nemmeno nelle giornate successive costringendo i due nella tenda e tutta la spedizione all’immobilità. Si riesce ad attrezzare campo 1, nonostante tutto. Si montano le tende e si trasportano i materiali. Quel campo diventerà il nuovo campo base.

Obiettivo è l’allestimento di campo 3. Ma le condizioni meteo non migliorano e gli alpinisti non riescono neppure a procedere da campo 2 per trovare la postazione ottimale per quello successivo. Non resta che attendere, e non lasciarsi scoraggiare dalle avversità. E questo è compito di Cassin: il suo carattere e la sua forza d’animo sono scolpite da anni e anni passati a bivaccare in condizioni estreme sulle pareti più difficili delle Alpi ed è lui l’esempio e la guida, non solo materiale, del gruppo di giovani alpinisti.

La valanga

Intorno alla mezzanotte del 19 aprile un forte boato seguito da uno schianto e da un vento tremendo sveglia gli alpinisti. Lo spostamento d’aria e il nevischio sollevato dalla caduta di una slavina dalla sud ha investito il campo base e divelto le tende degli Sherpa e quella di Messner. Tutto sommato i danni non sono gravi. L’altoatesino viene ospitato da Conti e si torna a dormire. Ma non è un sonno tranquillo: attorno alle 6 del mattino un nuovo, forte boato. Ancora una slavina ma che questa volta investe in pieno il campo base.

L’episodio è raccontato in tutta la sua drammaticità nel libro di Cassin “Capocordata”. Queste le sue parole: “Avverto un grosso peso sopra di me che corre velocemente. D’istinto cerco di portare le braccia sopra la testa per ripararmi, poi tento di sollevarmi, ma sono subito risucchiato“, e ancora: “Non ho la cognizione di quanto duri quell’inferno. Quando tutto sembra essersi calmato, a carponi e con molta fatica riesco a uscire dalla tenda. Davanti ai miei occhi una spaventosa visione: il nostro prezioso villaggio di tende è sparito“.

Ci sono viveri e materiali sparsi ovunque e, da sotto la neve, giungono lamenti. Una volta estratti tutti quanti fortunatamente non c’è nessuno in gravi condizioni. Solo qualche botta e un grande spavento.

Ci vorranno tre giorni di ricerche di tutta quanta l’attrezzatura per tornare ad una sorta di normalità. La decisione è quella di continuare. Alcune tende si possono riparare e da Kathmandu è possibile farsi mandare i viveri che mancano.

Verso campo 3

Il campo base viene spostato verso sinistra, in una posizione ancora più riparata. Poi, finalmente, il giorno 23, con il bello, le manovre per raggiungere campo 3 hanno inizio di nuovo.

Ma la situazione non è delle più tranquille. Quattro giorni di neve hanno accumulato un manto bianco alto più di un metro e soprattutto campo 2 è diventato pericoloso. Slavine e scariche di ghiaccio potrebbero partire da un momento all’altro anche perchè la giornata volge al bello. Anche perchè dalla montagna non ne è ancora partita una, e tutta quella neve prima o poi deve venire giu. Messner e Curnis sono i primi a giungere al campo. Bisogna valutare se proseguire o restare. Se tagliare un pendio carico di neve fresca oppure restare in attesa di venire spazzati via. La decisione è quella di spostare il campo verso sinistra, sotto ad uno spigolo di ghiaccio che sembra offrire riparo.

Ma la parentesi di bel tempo non era destinata a durare, e il giorno dopo è di nuovo neve. Tutto resta così in sospeso. Chi al base, chi a campo 1 e chi al nuovo campo 2. Solo un’ampia schiarita permetterà alla spedizione di giocarsi le sue carte di vetta. Ma fino ad allora l’unica condizione possibile è l’immobilità.

Il meteo sembra però irriderli, bello al mattino e bufera il pomeriggio. E sarà così per molto tempo: dal 20 aprile al 2 maggio la spedizione è costretta all’inattività. Oltre campo 2 non si può andare. Tutte le notti nevica quel tanto che basta perchè sia troppo pericoloso spingersi oltre.

L’arrivo del bel tempo

La mattina del 3 maggio si preannuncia finalmente buona. Il tempo è bello e il vento sembra placarsi. Le manovre sono febbrili. Giorni di stop forzato hanno caricato come una molla ogni componente della spedizione.

Tutti sanno esattamente cosa fare. Ed è ancora Reihnold Messner a guidare il gruppo di tre uomini e 4 sherpa verso il nuovo campo 3. Campo che viene installato alle 18.30 oltre quota 7.000 metri, ben protetto da un gigantesco seracco, nell’unico punto possibile.

Ma la fortuna sembra di nuovo voltare le spalle agli italiani. Al collegamento telefonico con il campo più alto, la mattina del 4 maggio, la voce di Messner conferma ciò che dal basso si può intuire: il vento è fortissimo tanto che gli uomini non riescono nemmeno ad uscire dalle tende, che sembra possano essere strappate via dalla montagna da un momento all’altro.

Ci vorrano due giorni prima che gli alpinisti possano effettuare il loro tentativo di attrezzare campo 4. Dal basso li si vede attaccare il pendio di neve sopra campo 3 e proseguire fino alla fine della piramide per poi sparire dietro lo spigolo. Gogna e Barbacetto attrezzeranno il percorso con numerose corde fisse, arrivando a toccare quota 7.500 metri, che resterà l’altitudine maggiore raggiunta dalla spedizione.

Ancora difficoltà

Quella sera infatti, giunge al campo 3 Leviti, che prende il posto di Gogna il quale scende a campo 2. Al collegamento telefonico delle 18.30 Barbacetto comunica a Cassin che dalla parete continuano a scendere delle piccole slavinette che si addossano alle tende. Neve farinosa, che non attacca, e a cui basta un soffio di vento per essere spostata. E che i due spostano, armati di pala. Il collegamento successivo è quello delle 20, con Gogna da campo 2, la sua voce è tutt’altro che tranquilla. Riccardo, il campo 3 è scomparso!“, le sue parole. Passato il primo attimo di sgomento, si apprende che Leviti e Barbacetto sono sani e salvi.

Ma ancora non è possibile parlare direttamente con loro e il collegamento è previsto per la mattina dopo alle 6. Gli interrogativi comunque non mancano: ancora non sa Cassin quanti e quali siano i danni ai materiali, ma ormai la possibilità di una resa di fronte a questa parete sta diventando quanto mai attuale.

Finalmente, la mattina dopo il collegegamento. La voce dei due miracolati è un ottimo risveglio per tutti. Riferiscono di essere addirittura riusciti a dormire tra le tende divelte. Raccontano dei pali piegati due volte di 90 gradi, e dei materiali sparsi dappertutto o trascinati giù dalla montagna. L’ordine è di scendere subito non appena il sole li avrà scaldati un poco. Il pensiero è quello di aver ascoltato il prezioso consiglio di Messner e di aver collocato campo 3 ben sotto al seracco, che ha fatto così da tetto. Senza questo accorgimento i due sarebbero certamente stati trascinati via.

Tutti al campo base

Gli interrogativi sono molteplici. Due valanghe hanno funestato la spedizione, il maltempo non ha mai abbandonato gli italiani. E’ prudente andare avanti? Per il momento ancora non si sa quanto materiale sia rimasto. Bisogna attendere una finestra di sereno per salire e controllare.

La decisione spetta a Cassin. Lui è il capo, più vecchio ed esperto. Ha vissuto avventure al limite della resistenza in montagna. E qualche amico l’ha anche perso.

Un nuovo obiettivo

Si vivono così momenti di tensione al base. Ma una volta fatto l’inventario e verificato che nonostante le perdite c’è ancora abbastanza materiale, si giunge ad una decisione: non più la sud del Lhotse ma, dalla quota di campo 3, la traversata Lhotse-Nuptse attraverso il ghiacciaio del Khumbu.

La scelta del da farsi sembra rianimare nuovamente l’intero gruppo. Tutti si danno da fare per organizzare al meglio le cose e l’attività è febbrile, complice anche il meteo, che regala due giorni di cielo sereno.

Ma evidentemente il 1973 per Cassin dev’essere un anno “maledetto”. Allorchè la spedizione ha ultimato i preparativi e si appresta alla traversata il tempo si guasta di nuovo. Nevica ininterrottamente per un giorno e una notte. Al risveglio la montagna è ricoperta da un manto di almeno 60 centimetri di neve.

La rinuncia

Tentare l’impresa in queste condizioni sarebbe troppo pericoloso. Due valanghe sono già state viste fin troppo da vicino. Come se non bastasse dalla radio giunge una notizia tragica: una valanga sul Nuptse ha travolto la spedizione che stava tentando la salita dalla via normale, un tracciato relativamente semplice, e che tra l’altro si sviluppa quasi interamente su cresta. Due uomini sono dispersi e le speranze di trovarli vivi sono poche. E Cassin li conosceva, avevano condiviso qualche giorno a Kathmandu e al campo base.

Da qui la definitiva rinuncia. Pian piano vengono recuperati i materiali e gli uomini fanno la spola fino a fondo valle per le comunicazioni con l’Italia e gli accordi con i portatori. Tutti gli uomini che avevano voluto e sostenuto la spedizione si dimostrano vicini a Cassin. E gli elogi sono comunque tanti, tenendo conto che la parete è difficile e ancora inviolata. Ed è strano pensare che per il capospedizione, giunto all’età di 64 anni, questa rappresenti la prima rinuncia ad un’impresa alpinistica.

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