A tu per tu con Tommy Caldwell
Dal rapimento in Kirghizistan e dall’amputazione di un dito fino alle superbe salite su El Capitan e sul Fitz Roy. Il fortissimo climber statunitense si racconta: “mi piacciono le big wall che fanno paura ma che non sono pericolose”
Appena sceso dall’aereo si è fiondato ad Andonno, ad assaggiare il calcare cuneese. Tommy Caldwell, definito da Alex Honnold “il più forte arrampicatore di big wall del mondo”, ha trascorso qualche giorno in Italia, ospite speciale del Cuneo Montagna Festival.
Ne abbiamo approfittato per incontrarlo e parlare della sua vita e della sua visione dell’arrampicata.
La tua carriera è segnata da momenti molto duri come il rapimento da parte di un gruppo di ribelli in Kirghizistan. Cosa porti dentro di te di quella esperienza?
Mi ha cambiato la vita, ma per fortuna sono riuscito ad andare oltre. Non tutti i componenti di quella spedizione sono riusciti ad uscirne. Alcuni hanno dovuto fare molta terapia, altri hanno smesso di scalare. Su di me, invece, ha avuto un effetto diverso. Mi ha fatto capire quanto la vita sia fragile e quanto bisogna godere di ogni momento. Grazie al Kirghizistan, ho completamente ridefinito il mio concetto di paura e dolore. Lì siamo stati sei giorni senza cibo, imprigionati, senza sapere cosa sarebbe successo. Quando sono tornato a El Capitan non mi sembrava più così spaventoso… Insomma, rispetto a essere rapiti da un gruppo di integralisti, salire il Nose è rilassante.
Poi arriva l’incidente al dito che sembra mettere fine alla tua carriera. Come sei ripartito?
Ho iniziato a prendere più seriamente la scalata. Ho dovuto diventare molto più scientifico, più cerebrale per colmare il problema fisico. Ma ero molto motivato. Dopo il rapimento la scalata è diventata la cosa più importante della mia vita, è stata un po’ un’ancora di salvezza per uscire da quel periodo. Era l’unica cosa che mi dava gioia e stabilità. Non potevo di certo fermarmi per un dito mozzo. E poi i medici mi hanno detto che non sarei mai più riuscito a scalare ad alto livello, quindi dovevo dimostrare il contrario!
Così ti sei specializzato nel free climbing in velocità.
Adoro il free climbing in Yosemite perché raggruppa tutte le mie capacità: l’arrampicata sportiva, il boulder, le big wall. Richiede tante abilità come forza, tecnica, intelligenza motoria ma anche saper gestire la logistica di una big wall.
Dopo tanti record di velocità, trovi la tua linea e la provi per ben sette anni: la Dawn Wall.
Stavo semplicemente cercando un posto in cui essere un esploratore. Volevo trovare qualcosa che nessun altro avesse fatto prima, avevo un vero e proprio desiderio pionieristico. E non potevo che farlo su El Capitan, con una via di free climbing.
La Dawn Wall è stato davvero un modo per cercare di rendere ogni giorno importante.
Il tuo punto di forza e il tuo punto debole come climber?
Il primo è la perseveranza. Il secondo è che rispetto ad altri scalatori, io non ho molta forza. Le mie dita sono deboli, non ho una scalata fluida, sono statico. Penso che la perseveranza mi serva a colmare la mancanza di talento naturale.
Conti le calorie o ogni tanto ti concedi uno sgarro?
Beh, mi hai beccato a mangiare torta e cappuccino alle 8 di sera! No a parte gli scherzi sono attento alla dieta ma non super intransigente. Mangio tanta verdura, ecco. Però adoro anche il cibo messicano.
Nel 2015 vinci il Piolet d’Or per la traversata sul Fitz Roy. L’alpinismo ti interessa solo quando prevede linee molto tecniche?
La mia passione sono le grandi parete rocciose. Quando vado in montagna, cerco le big wall, è ciò che mi interessa. E poi amo l’idea di affrontare difficoltà tecniche molto elevate su roccia e contemporaneamente fare i conti con il meteo, la logistica. Ecco l’unica cosa che proprio non mi piace è la morte.
Beh…
In realtà a molti scalatori e alpinisti ciò che piace è il rischio, arrivare al limite. A me no. O meglio, ho un rapporto con il rischio molto complesso. Da una parte ho un talento naturale a ignorare il rischio. Quando scalo riesco a isolare la consapevolezza del rischio in un angolo remoto del mio cervello. E questo mi permette di fare grandi cose. Dall’altra, però, mi sento in colpa. Mi sento in colpa verso la mia famiglia ma anche verso me stesso quando ignoro il rischio. Questo perché, per me, nessun progetto vale la pena di morire, la morte non è un’opzione. Invece, molti scalatori sono disposti a tutto pur di raggiungere il loro obiettivo.
E il tuo rapporto con la paura?
Mi diverto a trovare cose che mi spaventano. Cioè mi piace fare cose che facciano paura ma che non siano pericolose. E il Capitan è perfetto per questo scopo: fa tremendamente paura, ma non ci sono pericoli oggettivi come in alta montagna. Se sai quello che fai, non è così pericoloso. Puoi fare dei voli anche di 50 metri ma non ti succede niente. Non è come l’alta montagna dove ci sono valanghe, sassi che cadono… qui le soste sono sempre buone.
Com’è scalare con Honnold?
È il mio migliore socio di cordata. Soprattutto perché quando scala con me è legato a una corda!
Mi piace scalare con lui perché riusciamo ad andare davvero veloci. Con il fatto che entrambi sappiamo gestire il rischio, siamo davvero efficienti insieme. E quando le cose si fanno difficili, lui mantiene alto l’umore con humour e ironia.
Dopo il film inizi a essere famoso in tutto il mondo, come hai accolto questa fama improvvisa?
Quando è uscito The Dawn Hall sono cambiate molte cose. Vedere la mia faccia anche sulle scatole dei cereali è stato molto strano, un periodo particolare della mia vita. Io non ho mai scalato per diventare famoso. Anzi, sono sempre andato in montagna proprio per starmene da solo, per conto mio. Sono anche piuttosto timido di carattere.
Però, a essere sincero, ora apprezzo questa fama perché mi ha davvero dato accesso a tante opportunità che altrimenti non avrei avuto nella vita. Anche solo il fatto di poter mantenere la mia famiglia grazie all’arrampicata è qualcosa di incredibile!
Ora ti occupi di difesa ambientale. Cosa fai esattamente?
Mi occupo di aree protette, soprattutto in Nord America e attiro l’attenzione su temi delicati legati all’ambiente. Insomma, sfrutto la mia fama per sensibilizzare la gente e soprattutto per arrivare ai decision maker. Parlo con i politici, con le multinazionali, con chi ha il potere di cambiare le cose, faccio tanto attivismo.
Chi ti ispira, sia come atleta che come persona?
Sono ispirato dai primi scalatori dello Yosemite. Sono ispirato da mio padre, da mia moglie, dai miei amici Alex Honnold e Chris Sharma. Ma ora sono soprattutto ispirato dalle persone che fanno attivismo, da Yvon Chouinard e da tutti quelli che stanno seriamente cercando di fare qualcosa per l’ambiente.
Prossimi progetti?
Sto realizzando un film per National Geographic. Mi concentro sull’attivismo ma ovviamente scalo anche. Questa estate forse andrò in Dolomiti con la mia famiglia. Ora voglio dedicarmi a loro, non voglio perdermi i momenti importanti dei miei figli.