Gente di montagna

Alle origini della leggenda dei Ragni di Lecco

Anno 1945. Cinque ragazzi fuori dagli schemi fanno scintille sulla Grignetta ma sono visti con diffidenza dai grandi dell’epoca. È Gigi Vitali a dare loro credito e consigli. Nasce così un gruppo senza pari

Il nome dei Ragni della Grignetta (o Ragni di Lecco) e il loro simbolo – il maglione rosso con il disegno del ragno a sette zampe – sono conosciuti un po’ in tutto il mondo. Ma alle origini del sodalizio alpinistico lecchese non esistevano né l’uno né l’altro.

La storia di quelli che oggi sono i Ragni comincia, infatti, nel 1945, nei primissimi mesi dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando, un poco alla volta, escursionisti e alpinisti di tutta la Lombardia tornano a frequentare i sentieri e le pareti della Grignetta.

Fra loro c’è anche un gruppo di cinque giovanissimi ragazzi di Lecco, che, negli anni precedenti al conflitto, hanno avuto già qualche esperienza di arrampicata, anche se poi in montagna ci sono saliti più che altro per prender parte alla lotta partigiana… I nomi sono quelli dei fratelli Giulio e Ugo Bartesaghi (detto Nino), Emilio Ratti (alias “Il Topo”), Gigino Amati e Franco Spreafico (soprannominato “Piccolo”, per ironico contrasto con il suo metro e ottanta abbondante di altezza).

La mattina di una qualche domenica della tarda primavera del ’45, il quintetto di amici è impegnato a risalire il sentiero della Val Calolden, l’itinerario che allora quasi tutti affrontavano a piedi, partendo dal rione di Malavedo, per raggiungere i Piani dei Resinelli e da lì la Grignetta. La tortuosa strada che da Ballabio porta ai Resinelli era già stata inaugurata da diversi anni, ma per percorrerla sarebbe servita un’automobile o una motocicletta e pure i soldi per pagare il transito a pedaggio… tutti lussi che la stragrande maggioranza dei frequentatori delle Grigne non si poteva certo permettere!

Tasche penosamente vuote e cassetto dei sogni pieno zeppo, questa è anche la condizione dei cinque amici da cui la nostra storia prende avvio. Così, quando, proprio sul sentiero della Val Calolden, si imbattono in una tessera smarrita da qualche appartenente a una delle tante associazioni escursionistiche che allora popolavano il mondo degli appassionati di montagna, gli pare di trovarsi di fronte a un segno del destino. Sulla tessera sta scritto: “Compagnia dei Sempre al Verde”.

Sembra un “brand” cucito su misura dei cinque amici lecchesi e del loro bilancio finanziario, così, con poco rispetto dei diritti d’autore, adottano la denominazione e subito passano a fare proselitismo: “Dai, tira fuori due lire che fai anche tu la tessera dei Sempre al Verde!”.

Nel giro di pochissimo tempo la compagnia cresce nel numero degli associati e pure nella qualità delle realizzazioni alpinistiche. Quasi tutti i membri del gruppo sono ancora nella fase di apprendistato, ma, senza troppi timori reverenziali, cominciano ad affrontare anche le vie più impegnative della Grignetta.

Gigi Vitali fu il primo a credere in quel gruppo di ragazzi

I “vecchi” della generazione di Riccardo Cassin, quelli che, negli anni 30, hanno aperto le grandi vie di VI grado da ovest a est delle Alpi, mantengono le distanze e guardano con una certa diffidenza a questi scavezzacollo che se ne vanno in giro per la Grigna senza arte né parte. C’è però tra loro qualcuno che ha un occhio di particolare simpatia per i giovani, nei quali rivede probabilmente l’inarrestabile passione che ha mosso i suoi primi passi fra le pareti. Si tratta di Germano “Gigi” Vitali, il formidabile alpinista che, incordata con Vittorio Ratti, ha aperto vie ancora oggi celebri come quella sulla parete ovest dell’Aiguille Noire de Peuterey al Monte Bianco, o quella sulla nordovest della Cima Su Alto, nel gruppo del Civetta.

Gigi affianca i giovani, consigliandoli e svelando loro i “segreti” delle manovre di corda. Poi li incanta raccontando delle sua avventure dal Bianco alle Dolomiti, fino ai Faraglioni di Capri, luogo incredibilmente esotico per chi il mare fino ad allora lo ha visto solo in cartolina…

Quel nome figlio di un litigio

Così, già nel 1946, quando i Sempre al Verde sono ormai divenuti degli esperti rocciatori e sentono il bisogno di darsi un nome meno goliardico e più rappresentativo del loro amore totalizzante per la scalata, il pensiero di tutti corre proprio al Gigi e a uno dei suoi tanti aneddoti.

C’è infatti quella storia della sua visita alle Torri del Vajolet assieme a Vittorio Ratti, quella volta in cui avevano litigato per la ripartizione dei pesi nello zaino e, alla fine, invece di fare cordata, se ne erano andati ciascuno per conto proprio, in solitaria, uno su una via e uno su un’altra.

Fu proprio in quell’occasione che il mitico Tita Piaz, gestore del rifugio posto sotto le Torri e pioniere dell’alpinismo dolomitico nei primi decenni del ‘900, ebbe occasione di ammirare lo stile di scalata del Gigi. Vedendolo salire in solitaria, leggero ed elegante, esclamò: “Guarda quel lecchese come arrampica! Sembra un ragno!”.

Eccolo il nuovo nome del gruppo, omaggio a chi aveva creduto da subito alle qualità dei giovani scavezzacollo e auspicio per un futuro di grandi successi: “Ci chiameremo Ragni: i Ragni della Grignetta!”.

La nuova realtà dei Ragni sì dà presto anche uno statuto formale, come gruppo a cui possono aderire coloro che sono iscritti al Cai Lecco, che amano la montagna, la percorrono sia in estate che in inverno e sono pronti a intervenire per aiutare gli altri escursionisti e scalatori in pericolo.

Subito arriva anche il simbolo che da lì in avanti rappresenterà l’identità del sodalizio: un ragno stilizzato, disegnato per l’occasione proprio da Nino Bartesaghi, soprannominato anche “Architetto” per le sue abilità grafiche. Nella versione originaria lo stemma è rappresentato in campo triangolare e il ragno disegnato da Nino ha otto zampe. Negli anni successivi (nessuno ricorda quando) il simbolo verrà racchiuso in un tondo e il ragno si ritroverà con una gamba in meno: un piccolo sacrificio in omaggio alla credenza popolare secondo cui imbattersi in un ragno a sette zampe sia segno di buona fortuna.

Il maglione: rosso per farsi individuare da lontano

E il mitico magione rosso? Quello arriverà più tardi, probabilmente dopo la metà degli anni 50 quando, nella “moda” dell’abbigliamento alpinistico, le camicie di flanella e i giubbetti di velluto a coste cominceranno a essere sostituiti dai maglioni di lana. Sul colore rosso molti hanno fantasticato, prendendolo come un richiamo agli ideali di sinistra dei fondatori del gruppo e alla loro adesione all’antifascismo militante. È una suggestione da cui è simpatico lasciarsi trasportare, ma, probabilmente, le ragioni della scelta sono molto più pragmatiche: il rosso è un colore che spicca particolarmente nell’ambiente montano, buono (una volta arrivata la pellicola a colori) per fare delle belle fotografie, ma soprattutto utile per facilitare l’individuazione di una cordata o un alpinista che hanno bisogno di soccorso.

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