News

Alla scoperta del Mais Spinato di Gandino, gioiello delle montagne bergamasche

Una storia antica, un recupero recente affidato a pochi volonterosi. Dai chicchi arancioni nascano circa 40 prodotti, dalla polenta ai dolci. Tutti registrati

Gandino è un comune di 5500 abitanti, parte della Comunità Montana della Val Seriana, in provincia di Bergamo. Dai dintorni dell’abitato è facile raggiungere il Monte Farno (1250 m), un terrazzo sulla Pianura Padana, dal quale in una giornata limpida lo sguardo spazia sul Rosa, sulla Presolana, sull’Adamello e sui territori dell’Oltrepò. La “vetta” della zona è il Pizzo Formico (1636 m). Anche da qui, la vista sulle Orobie merita la salita e d’inverno è meta piacevole per scialpinismo e ciaspolate. Il borgo di Gandino è una sorpresa: i palazzi medievali del centro storico testimoniano di un’epoca di benessere, durante la quale alcune famiglie locali si erano arricchite con la produzione e il commercio dei panni in lana.

È in questo passato che affondano le radici della principale specialità di Gandino, che viene celebrata proprio in questo periodo fino al 22 ottobre con la manifestazione “I Giorni del Melgotto”: il Mais Spinato di Gandino. Si tratta di una antica varietà del cereale di origine americana di colore arancio con i semi che presentano una punta conica nella parte esterna della spiga rivolta verso l’alto, detta “spina”. Questo aspetto peculiare è all’origine del nome. A differenza di altri mais bergamaschi più adatti alla pianura, il mais spinato è una varietà di montagna. «Cresce da 600 a 1000 metri di altitudine», spiega Antonio Rottigni, presidente della Comunità del Mais Spinato di Gandino, che dal 2008 in sinergia con il Comune e la Pro Loco è impegnata a promuovere e tutelare questo mais come parte integrante della cultura e dell’identità territoriale. «È un prodotto DeCO, ovvero riconosciuto con la Denominazione Comunale d’Origine, ed è riconosciuto come tale soltanto se coltivato nei comuni di Gandino, Leffe, Casnigo, Cazzano e Peia».

Il mais è un cereale di montagna che si è adattato a crescere anche in pianura. Oggi se pensiamo al granturco, ci viene in mente una pannocchia gialla. Ma esattamente come accade per il grano o le mele, il mercato ha imposto un numero ristretto di varietà ai contadini, facendo sparire quel patrimonio di biodiversità che la natura offre. Esistono mais con pannocchie di color vinaccia, rosse, nere, bianche. «Dal mais Azul, che ha un chicco scuro, si ottiene una polenta rosa, mentre usando il Morado, che ha un colore viola, la polenta è color vinaccia scuro», racconta Rottigni, che di mais è ormai un esperto pur non essendo un coltivatore. «Tengo a sottolineare che il progetto Mais Spinato è stato portato avanti da volontari. I coordinatori fanno un altro mestiere, così si evitano conflitti d’interesse». Insomma, il rinato interesse per lo spinato non è un’operazione commerciale, anche se grazie a questo recupero oggi Gandino può vantare un’eccellenza che è fiore all’occhiello di biodiversità ed è alla base di prodotti ricercati dai locali come dai turisti.

I chicchi dello Spinato sono conservati alle Svalbard nella Banca dei Semi più celebre al mondo

Facciamo un passo indietro, per capire come è arrivato questo Mais Spinato proprio qui in Val Gandino. «Tutto incomincia a Venezia, dove Gandino, che era una potenza commerciale sin dal Medioevo, aveva un suo rappresentante presso il Doge», spiega Rottigni. «Il Mais Spinato era giunto dalle Americhe e i bellunesi già nel 1618 avevano provato a coltivarlo. I Giovanelli, ricca famiglia di Gandino a Venezia, l’hanno portato nel 1632 in paese, dove è stato creato il primo campo in Lombardia interamente coltivato a mais». Non da stupirsi: anche se dall’inizio del Cinquecento molti vegetali americani sono approdati in Europa, per lungo tempo si diffidava dal consumarli. Anche il mais era coltivato come pianta ornamentale. A Gandino, invece, si decide di ricavarne farina per la polenta, che non nasce con il mais: la cucinavano già i Romani, con farine di farro e grano. A Gandino, il Mais Spinato si adatta alla montagna, ai terreni, al clima, diventando una varietà a sé stante.

«Fino agli anni Settanta il Mais Spinato era coltivato qui in valle», continua Rottigni. «Poi con l’industrializzazione l’attività agricola si è ridotta. Nel contempo, l’arrivo di ibridi dagli Stati Uniti con rese maggiori ha portato alla sua scomparsa».
Ci sono voluti quattro anni di lavoro per ricrearlo partendo da vecchi semi, trovati in una cascina, e con la collaborazione del Centro di Ricerca Cerealicoltura e Colture Industriali (Crea) di Bergamo. Dal 2008 i preziosi chicchi dello Spinato sono conservati in quella che è la Banca dei Semi più celebre al mondo, nelle Svalbard. «La produzione è regolamentata da un disciplinare molto rigoroso. Niente chimica e rotazione dei terreni ogni due anni, che vengono arricchiti di azoto da piante leguminose». Una produzione biologica? «Di più: davvero naturale». Come altre varietà antiche, il Mais Spinato ha un’elevata resistenza naturale agli attacchi di funghi e patogeni, e richiede meno acqua dei mais industriali, riuscendo a cavarsela solo con l’acqua piovana. In tempi di cambiamento climatico, è un bel vantaggio.

Sono solo due gli agricoltori che lo coltivano in modo professionale

Oggi la filiera del gusto del Mais Spinato include 40 prodotti registrati. Si spazia dalla farina per polenta alle gallette, dai ravioli e dalle crespelle ai biscotti per giungere alla birra, al gelato, alle torte di mele e salate. I prodotti sono controllati e numerati, a tutela del consumatore. Al Galà dello Spinato che si è tenuto nei giorni scorsi, gli intervenuti hanno assaggiato le creazioni a base di Mais Spinato, inclusi vari abbinamenti di polenta. «Dieci anni fa è stato creato il primo network dei Mais Antichi, poi Slow Mays. Quest’anno abbiamo rivisto e firmato il Manifesto Slow Mays, che invita al rispetto del paesaggio, allo scambio di informazioni, a un approccio all’agricoltura sostenibile», commenta Rottigni. Con tutto questo interesse, il Mais Spinato sembra andare a gonfie vele. «In realtà, sono rimasti due agricoltori e degli hobbisti a coltivarlo», aggiunge Rottigni. «Le rese sono 60 per cento più basse rispetto ai mais di pianura, il terreno di montagna è difficile, ed è diviso in piccoli appezzamenti. Le infestanti vanno tolte a mano. Quindi, dobbiamo trovare incentivi perché la ricchezza che il Mais Spinato rappresenta non vada perduta». Per gli ultimi appuntamenti de I giorni del Melgotto consultare il sito del Comune,

Tags

Articoli correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Back to top button
Close