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La mia storia d’amore con l’Eiger: intervista a Cristophe Profit

Abbiamo incontrato il fortissimo scalatore francese a Trento e ci ha concesso una interessante intervista

Quarant’anni fa un giovane alpinista ha cambiato il modo di frequentare il Monte Bianco. Arrivava da Rouen, in Normandia, la regione più piatta della Francia, aveva scoperto la montagna grazie a tranquille escursioni in famiglia. Per qualche anno, però, le ascensioni di Christophe Profit di tranquillo hanno avuto ben poco.

È una storia che inizia sulla Diretta Americana del Dru, un itinerario di alta difficoltà su una parete verticale di straordinaria eleganza, che qualche anno dopo verrà martoriata dalle frane. Il 30 giugno del 1982 Christophe arriva in elicottero alla base, e attacca la parete alle 13, quando il sole che la riscalda rende l’arrampicata gradevole. Indossa pantaloni leggeri e maglietta, non ha zaino né corda, e nemmeno un cordino e un moschettone per autoassicurarsi in caso di malore o di un peggioramento del tempo. Per salire 900 metri di parete, con passaggi durissimi come il Diedro di 90 metri e il Bloc Coincé, impiega 3 ore e 10 minuti. Trecento metri di dislivello all’ora, il ritmo di un escursionista tranquillo su un sentiero.

Negli anni che seguono, Profit sale una dopo l’altra le vie più dure del massiccio del Bianco e delle Alpi. Per descrivere i suoi exploit nasce una parola nuova, “enchaînement”, concatenamento. Nel 1983, d’inverno, divora in 22 ore la Nord delle Droites, la Nord dell’Aiguille de Talèfre e il Linceul delle Grandes Jorasses.

Nel 1985, con trasferimenti in elicottero, sale in giornata le tre più note pareti Nord delle Alpi: Eiger (6.45 ore), Cervino (4 ore), Grandes Jorasses per il Linceul (4 ore). Due anni dopo ripete l’exploit d’inverno, in 42 ore, e sulle Jorasses percorre lo Sperone Croz. Nel 1986 torna senza corda sul Dru per girare “Christophe”, celebre film diretto da Nicolas Philibert.

Gli anni passano, ma monsieur Profit non ha lasciato la montagna. Oggi è una delle più esperte guide di Chamonix, ha dei clienti speciali che gli chiedono di affrontare le pareti più famose. Ma continua a frequentare le vie normali del Monte Bianco, come facevano decenni fa grandi professionisti come Armand Charlet, Lionel Terray e Gaston Rébuffat. È rimasto un alpinista curioso, che ama allontanarsi dalle vie più battute. Domenica 15 ottobre, al Festival dello Sport di Trento, la sua conferenza, dal titolo “L’anticonformista”, ha incantato il pubblico.

È vero che lei ama la musica classica?
Sì, mi piace, è perfetta per accompagnare l’alpinismo. Spesso, prima di partire da un rifugio, la ascolto per qualche minuto. È la preparazione migliore.

Quale compositore preferisce?
Quando ho salito per la prima volta la Nord dell’Eiger in solitaria, verso la fine ha iniziato a nevicare fortissimo, e nelle fessure di uscita scendeva un torrente di neve.
È stato difficile e pericoloso, quando sono arrivato in cima avevo dentro un’energia incredibile, e nella testa “l’Eroica” di Beethoven.

Delle tre grandi Nord delle Alpi, lei frequenta soprattutto l’Eiger. Posso scrivere che ormai è una storia d’amore?
Perché no? La Nord dell’Eiger è una parete incredibile, dall’attacco non si vede la vetta, lì si trova tutto quello che la montagna può dare. Anche il viaggio in auto da Chamonix a Grindelwald, che ho fatto decine di volte, è bellissimo.

Ha salito la Nord dell’Eiger con clienti?
Undici volte, una delle quali d’inverno. È stato un viaggio straordinario, lento, con tre bivacchi. Prima di attaccare sapevo che la parete era stracarica di neve, ma che le previsioni meteo davano bel tempo stabile.

Nell’estate del 1991, insieme a Pierre Béghin, lei ha salito lo spigolo Nord-ovest del K2. Cosa ricorda trentadue anni dopo?
Ricordo un’esperienza straordinaria. Senza quella salita sarei un uomo diverso.

Quali sono stati i momenti più forti?
I venti minuti che abbiamo passato in cima. Ci siamo abbracciati fortissimo, abbiamo visto il sole che scendeva oltre l’orizzonte, è arrivato il buio e abbiamo acceso le frontali. Gli amici al campo-base hanno visto le nostre luci.

C’è stato un momento decisivo, di svolta?
Sì, a un centinaio di metri dalla cima. Ci siamo fermati su delle rocce, psicologicamente a quel punto avremmo ancora potuto rinunciare. Poi abbiamo traversato un pendio di neve insidioso, con placche di neve ventata. A quel punto scendere è diventato impensabile.

Avrebbe traversato quel pendio con un cliente?
Certamente no, ma con Pierre c’era un rapporto speciale.

Più volte, nelle scorse estati, le vie normali del Monte Bianco sono state vietate per evitare incidenti. Servono questi provvedimenti?
Dico spesso ai miei figli “se la società di dice di andare a sud vai a nord, e viceversa”. Nel mondo in cui viviamo il rischio è tollerato sempre meno, ma l’alpinismo si basa sulle scelte e sulla responsabilità del singolo. Spesso, su temi come questo, la politica sconfina nella demagogia.

Esiste una soluzione alternativa ai divieti?
Intanto bisogna riflettere. Se il Monte Bianco fosse in Himalaya non ci sarebbero né il rifugio del Goûter né i cavi sulla parete. Si partirebbe da un campo-base a Tête Rousse per andare direttamente in cima. Meno comodità, e un percorso più lungo, ridurrebbero il numero degli alpinisti, e soprattutto quello degli inesperti.

Ridurre le attrezzature, rendere meno “facile” la montagna. Anni fa si parlava di un Parco del Monte Bianco. Se ne può riparlare? Lei sarebbe d’accordo?
Non credo che ci sia bisogno di un Parco nazionale e dei suoi divieti. Ma è giusto chiederci se, quanto e dove la montagna debba essere attrezzata. Nei prossimi anni, a causa del cambiamento climatico, il rifugio del Goûter avrà certamente problemi di stabilità. E allora?

Quindi lei non è un integralista?
Ma no, sono un uomo del mio tempo, uso i rifugi e gli impianti di risalita!

È vero che lei torna spesso sulla storica via normale da Chamonix per il rifugio dei Grands-Mulets? Non è troppo pericolosa?
Sì, nel 2022 l’ho fatta 26 volte, quest’anno 22. È lunga, 3800 metri di dislivello, ma è bellissima, un viaggio sulle tracce dei pionieri, nella scorsa estate ci ho girato un documentario per France 2. Nell’Ottocento, quando tutti passavano da lì, il ghiacciaio era gonfio e pericoloso, con crepacci enormi. La normale dal Goûter, con le sue scariche di sassi, è molto più pericolosa.

A proposito di vie normali del Monte Bianco. Recentemente lei è stato condannato per furto, dal tribunale di Bonneville, per aver tolto dalla cresta delle Bosses dei fittoni che consentivano di assicurarsi.
Negli ultimi anni la cresta delle Bosses si è fratturata, se si segue il filo c’è un passaggio ripido ed esposto, dove incrociarsi è difficile. Ho scoperto che si può passare più a sinistra, sul versante Nord, senza problemi. Nelle ultime estati sono andato lì più volte a battere la traccia.

Chi aveva messo i fittoni? E non potevano restare lì?
Erano stati messi per decisione ufficiale, credo da altre guide. Li ho tolti dopo aver avvisato tutti. I fittoni in quel punto invitavano gli alpinisti a salire e a scendere per la via più pericolosa, era giusto toglierli.

Ci sarà un giudizio d’appello?
Sì, tra qualche settimana, al tribunale di Chambéry. Sono ottimista, vedremo

C’è una morale, secondo lei, in questa storia?
Certo! Il mestiere dell’alpinista consiste nell’essere curioso, nell’adattarsi. In montagna, come in mare, la cosa più importante è la libertà.

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