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Autunno sull’Amiata, tra faggi, acque e castagne

Il vulcano spento che svetta sulla Toscana meridionale è una divertente palestra per sportivi. E per golosi

Sul Monte Amiata, tra la Maremma e il Senese, si distende una delle più belle foreste italiane. Il naturalista senese Giorgio Santi, nel 1795, l’ha descritta con queste parole. “Bellissimi castagneti che rivestono quelle pendici si estendono verso l’alto fino al segno ove il freddo e le nevi dell’inverno e l’asprezza del luogo non permettono loro il vegetare e il durare. Succedono ai castagni i faggi, i quali folti, giungendo alla più alta cima, le fanno una chioma verde e maestosa”.

Il “segno” di Santi è intorno ai 1100 metri di quota, con modeste variazioni a seconda dell’esposizione dei versanti. Più in alto il faggio si distende sovrano, in basso il castagno scende fino a 7-800 metri sul mare, e più in giù dov’è stato impiantato dall’uomo. Alle pendici della montagna sono boschi di cerro e roverella, e poi macchia mediterranea e leccete. L’abete, “pigello” nei dialetti dell’Amiata, cresce nei boschi del Vivo, della Santissima Trinità e del Pigelleto.

La grande foresta, nei secoli, ha dato cibo e lavoro alla gente dell’Amiata. Boscaioli e falegnami, carbonai, mulattieri che trasportavano il legname, poi i lavoratori dei mobilifici moderni. La castagna ha avuto un’importanza ancora maggiore. “La montagna con le sue castagne era la nostra madre, ci allattava” ha scritto mezzo secolo fa Ernesto Balducci, teologo e pacifista nativo di Santa Fiora.

Creato da una impressionante serie di eruzioni tra i 290 e i 180 mila anni or sono, l’Amiata segna l’inizio, per chi arriva da nord, della sfilata dei vulcani italiani, che prosegue con i Monti Cimini e il Lago di Vico, le alture di Bracciano, i Colli Albani, il vulcano di Roccamonfina, i Campi Flegrei e il Vesuvio.

Sotto alla lava sono i giacimenti di cinabro, il minerale da cui si ricava il mercurio, fondamentali in passato per l’economia della zona. In superficie mostra la natura vulcanica del monte solo qualche affioramento di trachite. Uno spigolo roccioso, nei pressi di Abbadia San Salvatore, ricorda secondo la tradizione il profilo di Dante.

Sono legate al vulcano anche le sorgenti termali di Bagni San Filippo (con le concrezioni della “Balena bianca”) e di Bagno Vignoni. A dare il nome all’Amiata, che deriva dal tedesco Heimat, cioè “patria”, sono stati i Longobardi, che sono arrivati da queste parti nell’alto Medioevo. L’Abbazia del Santissimo Salvatore, il più celebre monumento della zona, è stata fondata intorno al 750 dal re longobardo Rachis.

Più tardi sono nati i borghi e i castelli di Piancastagnaio, Arcidosso e Santa Fiora, la Rocca a Tentennano affacciata sull’Orcia e quella di Radicofani che controlla la Via Cassia. Da più di un secolo, corona questo piccolo mondo sorprendente la croce in ferro della Vetta, la “piccola Torre Eiffel” dell’Amiata, consacrata nel 1910, da cui si gode un vastissimo panorama.

Chi visita il vulcano d’autunno, oltre a inoltrarsi a piedi nel giallo e nell’oro di faggete e castagneti, può esplorare i centri storici e gli altri monumenti della zona. Trattorie, ristoranti e negozi di prodotti tipici consentono di esplorare i sapori dell’Amiata, spesso differenti da quelli delle colline di Siena e della Maremma.

Per secoli gli Amiatini hanno mangiato castagne sotto forma di polenta (il “pan di legno”), castagnaccio, frùciole (castagne cucinate nella brace) e castroni, castagne lessate con sale e finocchio. Nella cucina tradizionale del vulcano hanno spazio anche patate, funghi (con cui si prepara una celebre zuppa) e tartufi. A Seggiano e negli altri centri del versante maremmano si produce un ottimo olio.

Tra le carni, per secoli, si è mangiato soprattutto il maiale, affiancato nei periodi di caccia dal cinghiale. Tra Abbadia San Salvatore e Piancastagnaio sono alcuni dei primi allevamenti di cinta senese della Toscana. Le verdure entrano nella preparazione di primi come l’acquacotta, la pasta e fagioli, la pasta e ceci, i crostini di cavolo e i tortelli con ricotta e spinaci. L’arrivo mezzo secolo fa di allevatori sardi nelle campagne ai piedi del vulcano ha portato alla diffusione di un ottimo pecorino.

Un vulcano a tutto sport

Prima o dopo una sosta alle terme o in tavola, è possibile scoprire il volto sportivo dell’Amiata. Le strade asfaltate che salgono in direzione della cima sono spesso percorse in bicicletta, d’inverno le piste da sci nate nel secondo dopoguerra sono state messe in crisi, più volte, dalla mancanza di neve. Per questo motivo le ciaspole, che sarebbero ideali in questi boschi, possono essere utilizzate di rado.

A far riscoprire il Monte Amiata tra i camminatori è stata la Via Francigena, che costeggia il vulcano da est, da San Quirico d’Orcia e Bagno Vignoni fino a Radicofani e al confine regionale con il Lazio. Pochi camminatori, invece, seguono l’Anello della Montagna, uno storico percorso segnato che richiede 8-10 ore, che compie il periplo del vulcano e che è collegato ai paesi da bretelle segnate.

Grazie alle mappe escursionistiche dell’Amiata (l’ultima è stata realizzata da poco dal CAI di Siena) e ai cartelli (numerosi, ma non sempre chiarissimi) è possibile individuare decine di brevi camminate a piena immersione nel bosco. Basta un quarto d’ora, invece, per salire a piedi dal termine della strada asfaltata alla Croce, e alle vicine rocce della Vetta, alle quali è ancorata la veneratissima Madonna degli Scout.

A chi cerca un’escursione più lunga suggeriamo la salita a piedi da Abbadia San Salvatore alla Vetta, un percorso con 950 metri di dislivello, e che richiede circa 6 ore tra andata e ritorno. Dal centro (822 metri) e dall’Abbazia medievale si raggiunge il Museo della Miniera, poi si piega a sinistra entrando nella foresta dell’Amiata. Una strada sterrata porta al Podere Cipriana, tra altissimi abeti.

Poco oltre si imbocca il Sentiero del Capomacchia, che supera una ripida rampa (la “Scala santa”) e una capanna di boscaioli e poi esce sulla strada asfaltata che sale dal Prato della Contessa. La si segue brevemente a destra superando la strada che arriva da Abbadia, si va a sinistra fino all’acquitrino della Piscina, poi si imbocca il Sentiero della Scalettaia, affiancato da una Via Crucis, che s’inerpica fin sul punto più alto, a 1738 metri di quota. Nelle giornate serene, da qui, si vedono il Tirreno, le Alpi Apuane e il Gran Sasso. Si torna per lo stesso itinerario.

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