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Crolla il bivacco Meneghello. Ci sono altre strutture a rischio?

Il crollo del bivacco del Cevedale riporta in primo piano la questione della stabilità dei rifugi alpini. “La Capanna Margherita è solida, per altri ci servono informazioni” dice Riccardo Giacomelli, presidente della Commissione rifugi del CAI.

Lo scorso 17 luglio due alpinisti romani, Giorgio Giua e Simone Izzi, percorrono la traversata delle Tredici Cime, il lungo e classico itinerario di cresta che collega il Pizzo Tresero al Monte Cevedale, nel Parco nazionale dello Stelvio. Intorno alle 11 i due sono al Colle degli Orsi, 3304 metri di quota, e si fotografano nei pressi del bivacco dedicato a Francesco Meneghello, capitano degli Alpini nella Seconda Guerra Mondiale.

La porta del minuscolo edificio è chiusa. All’esterno, dei cartelli piazzati un anno fa dal Comune di Valfurva e dalla Sezione di Vicenza del CAI spiegano che il bivacco, installato nel 1952, è pericolante. Una preoccupazione giustificata, perché qualche giorno dopo l’edificio, e lo sperone roccioso che lo regge, precipitano nel vuoto. Il 27 luglio, un elicottero del Soccorso Alpino che sorvola la zona avvista una frana caduta da poco. Tra le rocce del Colle degli Orsi spiccano i rottami del bivacco.

Le montagne crollano da sempre, e da ben prima che l’uomo inizi a frequentarle per svago. Senza andare troppo indietro nel tempo, si possono ricordare le due frane (1997 e 2005) che sfigurano il Dru, nel massiccio del Bianco, cancellando la via-capolavoro tracciata da Walter Bonatti. Da qualche anno, però, frane e crolli si moltiplicano. La colpa è del cambiamento climatico, che porta con sé la riduzione del permafrost, lo strato di terreno ghiacciato che fa da collante alle rocce fessurate e friabili.

L’elenco degli eventi di questo tipo è lungo. Nel 2003 fa sensazione il crollo della Cheminée, un passaggio della via normale del Cervino, che mette a rischio la stabilità della Capanna Carrel, 3800 metri. Oggi, al posto del camino di una volta, chi sale da Cervinia alla “Gran Becca” affronta una parete aperta, solcata da una fessura attrezzata con una corda.

Nella torrida estate del 2022, un crollo sul massiccio del Bianco fa precipitare per 300 metri il bivacco Corrado Alberico-Luigi Borgna, 3674 metri, storica base per gli alpinisti diretti verso le vie della Brenva. Negli stessi giorni, sul Gran Paradiso, viene smantellato il bivacco Sebastiano e Renzo Sberna, della Sezione di Firenze del CAI. La scomparsa di un piccolo ghiacciaio ha reso instabili le rocce sotto al bivacco, la sua rimozione evita un altro crollo.

Più a est, tra Alto Adige, Lombardia e Trentino, già trent’anni fa, la riduzione di un altro pendio glaciale mette a rischio il rifugio Caduti dell’Adamello alla Lobbia Alta, 3040 metri, celebre per le visite di Papa Giovanni Paolo II e del presidente Sandro Pertini. I lavori per stabilizzare il pendio e salvare il rifugio sono lunghi, complicati e costosi.

Da qualche anno, uno sprofondamento del suolo crea seri problemi al rifugio Gianni Casati, 3269 metri, base per la via normale del Cevedale.  Un accordo tra la Sezione di Milano del CAI, il Parco Nazionale dello Stelvio e l’ERSAF, l’Ente Regionale per i Servizi all’Agricoltura e le Foreste della Lombardia prevede il suo smantellamento, seguito dalla ricostruzione a distanza. Fino a oggi, però, il rifugio è ancora aperto e lavora.

Nello scorso gennaio, il mondo della montagna italiano scopre con preoccupazione che anche la Capanna Margherita, 4554 metri, su una delle cime più alte del Monte Rosa, potrebbe essere instabile. A dare la notizia, in un convegno del CAI a Novara, è il presidente generale Antonio Montani. Nelle settimane successive, però, si scopre che per i prossimi anni i rischi di crolli e smottamenti sono esclusi.

“Vivo a Trento, per anni il problema degli smottamenti mi è sembrato remoto. Gli eventi del rifugio Casati mi hanno fatto capire che il rischio esiste, e cresce in modo esponenziale. Forse si sarebbe potuto spostare e salvare il bivacco Meneghello, ora con il Parco dovremo rimuovere i rottami”  spiega Riccardo Giacomelli, presidente della Commissione nazionale rifugi del CAI.

Quando gli chiedo della Margherita, Giacomelli snocciola dati rassicuranti. Qualche mese fa, ad aprile, dei carotaggi hanno confermato che il ghiaccio sotto alla costruzione è solido. “Per ora non ci sono problemi, in futuro vedremo” conclude.

Il CAI, secondo il database Unico rifugi 2.0, possiede 722 strutture ad alta quota. L’elenco include 310 rifugi custoditi, 65 rifugi incustoditi, 247 bivacchi, 88 capanne sociali, 10 punti d’appoggio e un ricovero di emergenza. A queste strutture, naturalmente, vanno aggiunti i rifugi privati come la Lobbia Alta e la Capanna Carrel. È probabile che i danni causati dalla riduzione del permafrost si concentrino sulle strutture più alte, nelle Alpi occidentali e centrali.

“Ci rendiamo conto del problema, abbiamo un po’ di fondi per affrontare le emergenze, in questa fase ci stiamo documentando. Abbiamo chiesto alle Sezioni, soprattutto della Lombardia e del Piemonte, di farci avere notizie sui loro rifugi” continua Riccardo Giacomelli. “In qualche caso potrebbero essere a rischio strutture periferiche come bagni, piloni di teleferiche e serbatoi. Se crollassero non creerebbero pericoli, ma impedirebbero al rifugio di funzionare”.

Insomma, siamo in una fase di studio. Il presidente Giacomelli assicura che il CAI collabora con il CAF francese e il CAS svizzero, che nel caso di un rifugio a rischio di crollo la chiusura sarebbe immediata, e che sarebbe seguita da una riflessione se ricostruire (nello stesso luogo o altrove) o chiuderlo per sempre.

Al cronista che vorrebbe avere qualche nome “attenzionato”, Riccardo Giacomelli risponde comprensibilmente “è presto, e non è giusto creare allarmismo, comunque teniamo d’occhio il 3-5% delle nostre strutture”. Poi chiude con un appello. “Lo ripeto, per noi è fondamentale sapere quali sono i rifugi e i bivacchi a rischio. Ho chiesto alle Sezioni di informarci per vie interne. Ribadisco l’appello anche qui, grazie a Montagna.tv”.

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