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Silvia Vidal, la signora della solitudine

Per raccontare il suo alpinismo al Trento Film Festival, Silvia Vidal ha scelto l'avventura sulla muraglia del Cerro Chileno Grande

Le serate che il Festival di Trento dedica all’alpinismo e all’avventura sono seguite da un pubblico smaliziato e attento. Mercoledì 3 maggio, però, il racconto che la catalana Silvia Vidal ha dedicato alla sua via nuova sulla muraglia del Cerro Chileno Grande, nella Patagonia cilena, ha emozionato profondamente chi lo ha seguito.
Quel racconto in un italiano quasi perfetto (Silvia è nata e vive a Barcellona, oltre alla sua lingua parla il castigliano e l’inglese), quei selfie e quelle immagini di rocce verticali e a tratti rivestite da vegetazione tenace, le informazioni sui dettagli dell’impresa hanno tenuto avvinti per un’ora gli spettatori. Alla fine gli applausi sono stati scroscianti, e le domande competenti e profonde.

Silvia Vidal, 52 anni, ha alle spalle molte salite di spicco, su grandi pareti pressoché sconosciute. Nel 2021 ha ricevuto una Menzione Speciale ai Piolets d’Or per il suo “eccezionale contributo all’arrampicata in solitaria su big wall negli ultimi due decenni”.
Un premio riferito a Un pas més, la via nuova tracciata quattro anni prima sulla parete Ovest dello Xanadu, negli Arrigatch Peaks, in Alaska. Un’impresa nella quale Silvia è rimasta da sola per 53 giorni,17 dei quali in parete (con difficoltà fino all’A4+) e ben 36 impiegati per trasportare a piedi verso la montagna 150 chili di cibo e materiale, e riportare indietro la metà di quel peso al ritorno.
Nello straordinario palmarès di Silvia Vidal sono vie nuove sulle montagne dell’Asia come Sol Solet sull’Amin Brakk nel Karakorum (1999, con Pep Masip e Miguel Puigdomenech, 32 giorni in parete, difficoltà fino all’A5), e Mai Blau (2004, con Eloi Callado, A3), sulla Neverseen Tower nell’Himalaya indiano.
Tra i suoi exploit solitari sono Life is Lilac (2007, A4+, 21 giorni in parete) sull’elegante Shipton Spire in Karakorum. Cinque anni dopo l’alpinista catalana ha impiegato 32 giornate in parete per aprire Espiadimonis, una via di 1500 metri con difficoltà fino all’A4 sulla Serrania Avalancha, in Patagonia. A causa della pioggia, ha dovuto passare 16 giorni di inattività assoluta nel portaledge.

La storia dell’alpinismo è ricca di avventure solitarie, dalle eleganti arrampicate di Cesare Maestri e Paul Preuss fino all’alpinismo di sofferenza di Renato Casarotto sulla Cresta di Peutérey in veste invernale, e di Reinhold Messner sul versante tibetano dell’Everest. La solitudine sul Dru, sulla Nord del Cervino e poi in molte avventure esplorative ha contribuito a far entrare Walter Bonatti nel mito.
Da tempo, per chi pratica e racconta l’alpinismo, il concetto di “sesso debole” è scomparso. Il merito, tra tante, è di Alison Jane Hargreaves, Catherine Destivelle e Nives Meroi. All’inizio della conferenza di Silvia Vidal, quando l’alpinista catalana spiega “peso 45 chili, e ne posso portare sulle spalle 25” dà un’immagine esattamente contraria, di una forza straordinaria raccolta in un fisico minuto.
Per raccontare al pubblico di Trento il suo alpinismo, Silvia ha scelto un’avventura di tre anni fa, l’apertura della via Sinfonia Magica (1500 metri, difficoltà fino all’A4) sulla muraglia del Cerro Chileno Grande, nel Parco nazionale della Laguna San Rafael.
Un’impresa in “stile Vidal”, senza radio, GPS o telefono cellulare (che non usa nemmeno nella vita quotidiana), con 33 giorni e 32 notti in parete senza scendere a valle. “Bisogna avere molta fede” spiega. È la prima di una lunga serie di frasi da conservare e meditare.
Nei primi giorni della spedizione, entra in gioco la forza fisica di Silvia. Sedici giorni di andirivieni, 160 chilometri in tutto, per trasportare sei sacche da 25 chili ciascuna alla base superando un ghiacciaio non banale. In questa fase, più volte, la aiutano i ranger del Parco. Altri andirivieni, da sola, servono a portare i bagagli alla base delle placche del Cerro. Poi inizia la parete.

“Avevo solo qualche fotografia, ho sottostimato la parete, pensavo fosse alta 800 metri, invece erano quasi il doppio”. Le corde potrebbero non bastare, ma in una grotta compare una statica da 200 metri lasciata da una spedizione francese. È stato il primo miracolo” racconta l’alpinista.
Silvia Vidal arrampica in “stile capsula”, dormendo in un portaledge appeso ai chiodi, e spostando per due volte il campo di qualche centinaio di metri verso l’alto. Nelle prime centinaia di metri arrampica su lastre di granito levigato e pulito, poi la roccia è rivestita da una vegetazione invasiva e tenace.
Silvia scala con i ramponi ai piedi, usa l’unica piccozza che ha portato per salire sul muschio, si protegge su improbabili spuntoni, incastra le dita in fessure dove viene morsa più volte dai ragni, ma non si scompone nemmeno per questo. “Altre volte mi era successo con il gelo” sorride.
Durante uno spostamento del campo verso l’alto la sorprende una bufera di vento e di pioggia, lotta per ore senza riuscire a montare il portaledge che “sembra la vela di una barca”, poi scopre una cengia di erba e muschio e ci riesce. Nell’ultimo tratto il granito ridiventa pulito, e l’arrampicata artificiale di Silvia (“lenta, laboriosa, creativa”) prosegue per giorni e giorni.

Una scaglia con una fessura off-width, in cui riesce a incastrarsi, offre una parentesi di arrampicata libera. “Sono riuscita a entrarci, mi sono dovuta togliere il casco, sono riuscita a proteggermi solo una volta” racconta. In cielo compaiono i condor, e per Silvia vederli vicini è un piacere.
Dove la parete si abbatte l’alpinista fissa per l’ultima volta la corda, lascia il materiale, prosegue superando in free solo 80 metri di quinto e quinto superiore, ben sapendo che dovrà rifarlo in discesa. Rocce più facili la portano alla vetta, e al suo straordinario panorama a 360°. L’ennesimo selfie, finalmente con un sorriso, una foto panoramica, poi arriva il momento di scendere.
Quando Silvia Vidal torna al portaledge si scatena una seconda tempesta, che la sballotta, la rovescia e la ferisce. L’indomani, quando ripassa dal “campo” sulla cengia, scopre che è stata bombardata da una frana. “Ho vissuto lì per dieci giorni, è stato un altro miracolo”. Poi l’ultimo tratto sulle placche, gli andirivieni per trasportare il materiale sul ghiacciaio, la scoperta che nel mondo è esplosa la pandemia.

Non sapevo del Covid, quando sono arrivata alla strada ho scoperto che il Parco stava per essere chiuso” racconta Silvia. “Molti voli sono stati cancellati, tornare a Barcellona non è stato facile”. L’ultima foto la mostra accanto al nastro dei bagagli dell’aeroporto di El Prat. Il salone degli arrivi, normalmente gremito, è un deserto.
Quando risponde alle domande del pubblico, Silvia Vidal cita più volte la spedizione allo Xanadu, in Alaska. “Negli andirivieni con i bagagli mi faceva male una rotula, ho recitato il mantra “a ogni passo le mie cartilagini si rigenerano”, e il dolore è passato” racconta. “In Cile ho fatto lo stesso. Non avevo acqua, ho recitato “ogni goccia idrata il 100% del mio corpo”, e la sete è finita”.
La sera del 3 maggio, per conoscere di persona Silvia Vidal, scende a Trento anche Ermanno Salvaterra, un protagonista dell’alpinismo in Patagonia. La saluta, la abbraccia, si congratula per le sue ascensioni, e lei naturalmente ricambia. Poi Ermanno si volta verso gli amici e confessa “io, su una parete come quella, non ci andrei mai”. Difficile pensare a un complimento migliore.

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