AlpinismoAlta quota

“Non mi piace la sconfitta ma la accetto”, una chiacchierata con Hervé Barmasse sull’esperienza al Dhaulagiri

E all'orizzonte ci sono nuovi progetti...

Ci vuole coraggio per raccontare un fallimento. Torni a mani vuote da una spedizione in capo al mondo che ti è costata un’infinità di tempo, energie e soldi, che ti ha tenuto lontano da casa per un paio di mesi, impedendoti di trascorrere il Natale con le tue figlie. Per il secondo anno consecutivo… Evidentemente, rilasciare un’intervista non è proprio la prima esigenza che avverti. Eppure Hervé Barmasse non si è tirato indietro. Quando lo abbiamo contattato chiedendogli qualche riflessione dopo il ritorno dal Dhaulagiri, si è preso qualche giorno per festeggiare il compleanno della bambina, riorganizzare i pensieri e soppesare attentamente le parole. E con generosità ci ha concesso una lunga chiacchierata sull’esperienza in Nepal, con ricco condimento di riflessioni sull’alpinismo odierno.

Al di là di quanto hai raccontato sui social, com’è andata la spedizione al Dhaulagiri?

Dopo il tentativo invernale dello scorso anno alla parete Rupal del Nanga Parbat, quest’anno, io e David (Goettler N.d.R.) eravamo davvero carichi. Da un punto di vista strategico siamo arrivati in Nepal per acclimatarci nella valle del Khumbu e intanto farci un’idea delle condizioni delle montagne, direttamente sul posto. Procedeva tutto ottimamente, la nostra forma fisica era al top, ma quando è venuto il momento di scegliere la montagna da scalare, ecco un primo intoppo. Il governo pakistano ci ha negato il permesso per il Nanga Parbat, dove volevamo tornare, a causa di problemi di sicurezza interna. Al Manaslu c’era già una spedizione che intendeva salire in stile himalayano, quindi incompatibile con il nostro tentativo in stile alpino. A quel punto, la scelta tra Annapurna e Dhaulagiri è caduta sulla seconda montagna.

Che condizioni avete trovato lì?

In generale buone, perché abbiamo avuto tempo stabile e versanti piuttosto secchi. Il problema era il vento che non ha praticamente mai dato tregua, con folate sulla cima che soffiavano tra i 100 e i 250 km/h. Ho continuato a ricevere gli aggiornamenti di Meteotest anche dopo il ritorno a casa, fino alla fine di febbraio, e devo dire che abbiamo fatto bene a rinunciare perché le condizioni non ci avrebbero dato alcuna possibilità. D’altronde, tra gli Ottomila himalayani, il Dhaulagiri è quello più occidentale che prende in maniera più diretta le correnti del jet stream.

Il vostro obiettivo è salire un Ottomila, d’inverno, in puro stile alpino. È possibile e cosa comporta?

Un’ascesa in stile alpino prevede una scalata e una discesa senza ausilio di ossigeno, corde fisse, campi preallestiti e portatori. La cordata è formata da un massimo di tre persone e non possono esserci altri team sulla via che hai scelto. Ogni volta che sali sulla montagna, se non hai successo, riporti tutto ciò che avevi con te al campo base. Il tentativo dell’anno scorso al Nanga Parbat sulla parete Rupal aveva più margini di insuccesso. Era la prima esperienza invernale, si trattava della parete più grande del mondo e le condizioni della neve erano particolarmente difficili e pericolose. Quest’anno invece penso ci sia mancata una buona dose di fortuna. Una salita in stile alpino richiede condizioni meteo un po’ più stabili e un po’ più lunghe. Al ritmo che avremmo potuto tenere ci sarebbe bastata una solo giornata con il vento sotto i 30 chilometri orari. Purtroppo, questa finestra anche corta non c’è mai stata.

Perché lo stile alpino?

Non per una questione di primati, ma principalmente per una questione di etica e rispetto per la montagna. Al giorno d’oggi se in Himalaya salissi una via normale mi farei un esame di coscienza perché, anche se non usassi l’ossigeno, contribuirei a plastificare le montagne seguendo le corde fisse messe dagli sherpa e dai portatori. Quest’anno siamo rimasti scioccati dalla quantità di immondizia che abbiamo trovato dal campo base in su. Mentre il campo base dell’Everest dicono venga ripulito di tanto in tanto, sul Dhaulagiri, come sugli altri 8000, questo non succede e tra resti di tende abbandonate, grovigli di corde fisse che incrostano le pareti, la montagna sembra letteralmente plastificata. E poi oltre ai problemi legati all’ambiente c’è da fare una riflessione sull’evoluzione alpinistica.

E cioè?

Si scalano gli Ottomila con lo stesso stile che si usava 50 anni fa ma con una tecnologia migliore, le previsioni del tempo accurate e una traccia sempre battuta dagli sherpa. Il risultato è che stiamo trasformando le montagne in un accumulo di rifiuti senza portare alcuna novità alpinistica in un mondo che, invece, sta cambiando vorticosamente. Questo tipo di alpinismo è completamente distaccato dalla realtà, rispetto a una crescente sensibilità verso i temi ambientali. Ma di fronte a un invito alla riflessione sembra che alpinisti professionisti, guide alpine e aziende che si occupano di outdoor preferiscano guardare altrove e proseguire sempre sulla stessa strada. Certamente mi rendo conto che il mio è un messaggio scomodo perché non sempre è facile prendere posizione. Ma mi piacerebbe che gli alpinisti tornassero a mostrare le loro idee, a seguire le istanze che circolano nel resto della società, anziché sentirsene estranei. Un po’ come ai tempi del Nuovo Mattino.

Qualcuno potrà obiettare che, dopo tutti questi discorsi, te ne torni a casa senza la vetta. Quanto pesa a livello mediatico il fallimento?

Ho compiuto 45 anni, da un punto di vista fisico mi sento meglio oggi rispetto a 15 anni fa e sono cresciuto con le spalle larghe È chiaro che non mi piace la sconfitta ma la accetto a maggior ragione se si tratta di un progetto ambizioso. Ma se da una parte non mi lascio influenzare da chi non aspetta altro che puntare il dito, dall’altra sono abbastanza umile da prendere in considerazione le critiche costruttive. Se avessi paura di fallire, del disappunto, cercherei obiettivi più facili con poche probabilità di insuccesso. In fondo, posso dire che il giudizio altrui, soprattutto quando sconfina nell’insulto gratuito, me lo lascio scivolare addosso. E poi mi rimane sempre la speranza che le persone abbiano di meglio da fare che pensare a me perché alla fine stanno sprecando solo energie che potrebbero dedicare a realizzare se stesse.

Altro argomento delicato: qual è il periodo che definisce un’ascensione invernale in Himalaya?

Mi chiedo fino a quando avrà un senso questa distinzione. Fino a pochi giorni fa il Cervino era talmente secco che si poteva salire in scarpe da ginnastica e lo zero termico era a quota 3000; se i cambiamenti climatici divenissero così evidenti anche in Nepal o in Karakorum, come ci comporteremmo? Saremo abbastanza onesti dal riconoscerlo? Comunque, ritornando alla tua domanda, c’è chi distingue tra inverno astronomico che va dal 21 dicembre al 21 marzo e inverno meteorologico, dal 1 dicembre al 28 febbraio. Io e David per stare lontani da polemiche abbiamo considerato buono il periodo che va dal 21 dicembre al 28 febbraio. Questo non significa che non sono pronto a prendere posizione, anzi. Mi piacerebbe che dopo un confronto costruttivo si ponesse fine alle querelle di questi ultimi anni guardando con obiettività alla storia dell’alpinismo, alla successione delle ascensioni e a quel giorno fatidico in cui durante un Piolet d’Or è stato deciso che dovesse essere considerato un inverno piuttosto che un altro. Io un’idea ce l’ho e se mai verrà organizzato un dibattito non avrò paura ad esprimermi.

E per concludere, quali sono i tuoi prossimi progetti?

L’idea di salire un Ottomila invernale in stile alpino continua ad attirarmi e ci riproverò. Non ho ancora deciso se il prossimo anno, o quello successivo, e nemmeno se sarà nuovamente la Rupal del Nanga Parbat o un 8000 nepalese. Per il momento penso a ad altri obiettivi geograficamente più vicini, poi si vedrà!

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2 Commenti

  1. Le “sconfitte” fanno parte del gioco dell’alpinismo.
    Quando diventano superiori alle “vittorie” è giunta l’ora di smettere.
    Lo diceva un Grande Alpinista.
    Sinceri auguri !

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