AlpinismoAlta quota

Hervé Barmasse e David Gottler rinunciano all’invernale del Dhaulagiri

Purtroppo si conclude qui la nostra spedizione invernale al Dhaulagiri” dice David Gottler, annunciando la decisione presa con il suo compagno di cordata Hervé Barmasse. Il motivo è presto detto: il meteo non lascia speranze circa la possibilità si un tentativo di salita.

Non solo perché ci sono continuamente venti sopra i 100 km all’ora fino alla fine del mese, ma sono previste anche diverse nevicate e se dovesse nevicare lassù al campo base, se fossero abbondanti, saremmo bloccati” spiega l’alpinista tedesco dal cosiddetto “campo base italiano”, accampamento situato a 3660 metri, circa 1000 metri sotto al campo base (4700 metri circa). Ora i due torneranno a Pokhara e poi il rientro a Kathmandu.

Non è stato semplice perché non abbiamo avuto una vera occasione a causa del meteo. Così la “sconfitta” è più difficile da accettare” confessa Hervé Barmasse in risposta a un suo fan che sui sui social gli ha domandato se fosse stato complesso chiudere la spedizione. “A differenza del 2022, provo un po’ di amarezza. Sembrava l’anno giusto. Comunque, passerà veloce…” dice ancora il valdostano. Ed effettivamente i due alpinisti sono stati davvero sfortunati con il meteo quest’anno: nevicate, ma soprattutto il jet stream che non ha mai smesso di sferzare il Dhaulagiri durante tutto il mese di permanenza al campo base con raffiche quasi mai sotto gli 80 km/h, spesso oltre i 100/120 km/h. “In inverno e in stile alpino, deve essere almeno sotto i 40 km orari” spiega Barmasse, ammettendo che quello che davvero è mancato per riuscirci è stata “un po’ di fortuna”.

L’obiettivo di Barmasse e Gottler era ed è ambizioso: la prima salita invernale in stile alpino. Uno stile che il valdostano ha espresso più volte essenziale per il proprio modo di fare alpinismo. “Soli su una montagna di 8000 in inverno con l’attrezzatura essenziale per scalare in Himalaya come sulle Alpi: 60 metri di corda, un chiodo da ghiaccio, una picca, un rinvio e tre moschettoni. Non è solo questione di stile, piuttosto direi di rispetto per ciò che amo, la montagna” scriveva qualche giorno fa. Un argomento che sta facendo discutere la comunità alpinistica in questi giorni, come abbiamo raccontato proprio oggi.

Deluso per non avere avuto l’occasione, consapevole che si possa riuscire. Ne sono certo”. E proprio con questa consapevolezza che Hervé si dice pronto a riprovarci in futuro, ma con tutta probabilità non il prossimo inverno, dato che ha promesso alle sue bambine un Natale insieme.

In ultimo, una nota su un altro tema molto dibattuto nell’alpinismo himalayano: l’inizio dell’inverno nell’alpinismo. “Esistono due inverno. Uno meteorologico e l’altro astronomico. Nessuno ha mai deciso quale sia corretto. Non è mai stato discusso da un’ampia comunità di alpinisti. Ce ne sono alcuni che la pensano in un modo, altri in un altro. Personalmente per non incorrere in polemiche andrò in Himalaya dal 21 dicembre al 28 febbraio”. Non una risposta dirimente, ma interessante perché aggiunge una voce al dibattito ammettendo che la questione è tutt’altro che chiusa, come molti fanno credere.

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3 Commenti

  1. Tre commenti a margine della notizia.
    1) a mio avviso per una spedizione di questo tipo il tempo da loro dedicato è troppo poco se è vero che a fine mese sarebbero comunque rientrati (avrebbero avuto almeno tutto febbraio ancora per provare) o quanto meno avrebbero dovuto anticipare l’acclimatamento in modo da essere operativi sin dal 21/12 (e così avrebbero potuto sfruttare la finestra metereologica utilizzata da Txikon). Il che, a mal pensare, fa credere che queste spedizioni siano più una vetrina per gli sponsor che non un tentativo serio di venire a capo del risultato;
    2) Barmasse la mena tanto con il rispetto ecologico (praticamente non parla d’altro e quanto parla ultimamente, forse troppo rispetto ai risultati che consegue!) e poi raggiunge il campo base in elicottero motivando il fatto che il trekking non era percorribile (poteva scegliere un’altra montagna se voleva mantenere una scelta purista in tutto e per tutto);
    3) non sono così convinto che un 8000 in stile alpino in invernale non sia ma stato salito (Tomek e la Revol l’hanno fatto sul Nanga Parbat per una nuova via anche se poi lei è stata aiutata nella discesa), al limite non è mai stato fatto in puro stile alpino, ma se anche fosse, andare su e giù per la via normale prima di sferrare l’attacco conclusivo come hanno fatto i due sopra, non è definibile, per l’appunto, stile alpino puro. Questo prevede che l’acclimatamento venga svolto altrove e poi venga effettuato il tentativo sulla montagna scelta in un’unica soluzione. Se si vuole essere puristi, allora bisogna esserlo fino in fondo e non solo quando fa comodo!
    Scusate la schiettezza, ma come diceva un grande (quello si che si poteva definire tale!) l’obiettività impone chiarezza!

  2. Caro gian piero, letto il tuo intervento devo dire che su alcune cose concordo, su altre meno.
    Punto 1) Hai ragione, effettivamente non si può pretendere di sostenere una invernale, per giunta in formazione ridotta ed in stile alpino, pensando di chiudere i giochi in un mese. Per me bisognerebbe pazientare per non meno di due mesi, se si vuole davvero conquistare con forza e convinzione la vetta. Non penso invece che gli sponsor siano stati l’unico motivo della loro spedizione. Le loro motivazioni mi sono sembrate infatti sincere e convinte, non credo quindi che la durata della spedizione sia da ascrivere a questo motivo. Comunque, per come la vedo io, per un invernale così estrema sarebbe cosa sensata battezzare un 8000 e poi anno dopo anno riprovare sempre sulla stessa vetta, perché nell’arco di un lustro o anche più è più facile beccare la stagione in cui il jetstream soffia meno forte o la nevicata che seppellisce le tende ti lascia una finestra di bel tempo più ampia. Viceversa se una stagione vai sul Nanga, un’altra sul Dhaulagiri, un’altra ancora sul Manaslu e via dicendo, è giocoforza statisticamente più facile che trovi sempre le condizioni peggiori e quindi improbabile avere una chance concreta di successo.

    Punto 2) Su questo mi astengo dal giudizio. Nel senso, in teoria la tua critica è sensata, ma non conoscendo esattamente le condizioni in cui Barmasse e Goettler si sono trovati ad operare, con un permesso già in mano, non me la sento nemmeno di buttare loro la croce addosso a priori per la loro scelta che potrebbe anche essere comprensibile in quanto obbligata.

    Punto 3) Qui devo darti torto. O meglio, anche io ero convinto che Revol e Mackiewicz nel loro tanto vittorioso quanto tragico tentativo avessero effettuato una salita in stile alpino, poi però andando a rileggere la relazione della spedizione sull’American Alpine Journal, ho appreso che i due avevano fatto una prima ascesa con deposito di materiale fino a campo 2, che ritrovarono intatto e quindi sfruttarono come valida base di appoggio durante il loro tentativo di attacco alla vetta. Certo possiamo discutere all’infinito di quanto possa comunque discostarsi il loro tentativo da un puro stile alpino, considerata la lunghezza oltremodo impegnativa in quella che già di suo è la parete più imponente al mondo, possiamo affermare che tra quello che è stato il loro approccio alla salita passa comunque una montagna grossa quanto il Nanga rispetto a tentativi con sherpa, corde fisse, bombole d’ossigeno e chi più ne ha più ne metta, possiamo anzi dobbiamo senz’altro dar loro credito di aver realizzato un’incredibile ascesa aprendo una via nuova in inverno, e quant’altro si vuole, ma di fatto ciò che critichi a Barmasse e Goettler è esattamente ciò che dovresti criticare a Revol e Mackiewicz. Anzi, al netto di tutto, comunque i primi due avrebbero ad ogni modo effettuato il tentativo finale senza avvalersi di campi intermedi.

    Io comunque su questo punto tendo ad essere un po’ più accondiscendente, nel senso che se hai giustamente ragione nel dire che se si vuol fare i puri poi non si possono lasciare se e ma per strada, è altrettanto vero che salire per acclimatarsi e lasciare attrezzati dei campi intermedi non mi sembra poi un così grande demerito o comunque una così grande scorciatoia rispetto ad altre. Soprattutto in casi particolari come la Messner-Eisendle o la Schell, che salendo da versanti opposti (uno il versante Diamir, l’altro il versante Rupal) affrontano dislivelli e kilometraggi che rendono obiettivamente molto complesso un puro stile alpino in inverno. Fermo restando comunque che poi il tentativo più estremo (quindi quello alpino) avrà sempre il fascino ed il merito più grande rispetto a qualsiasi altro, ovviamente.

    1. Comprendo anche se non concordo con i tuoi punti di vista, ma rispetto all’ultimo capoverso non ho capito la tua posizione. Se sei per un’interpretazione lassista dello stile alpino allora non hanno i sensi i rilievi che fai alla salita della Revol e di Tomek perchè, secondo i parametri da te citati, rientra nello stile alpino, ma nel testo sopra non concordi nel definirla tale. Se così fosse dovresti convenire con me che la salita intrapresa da Barmasse e socio non sarebbe una prima. Nel corso del tempo ho sentito applicare i significati più vari alla terminologia dello stile alpino in Himalaya, ma per me il senso è chiaro: salire la montagna come la saliresti nelle Alpi. Tutto il resto (acclimatarsi sulla via, mettere dei campi intermedi, attrezzare dei punti difficili con corde fisse, etc.) sono forzature alla terminologia che servono a rendere appetibile ed abbellire la salita così concepita, ma che io definirei solo e soltanto stile leggero.

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