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“L’ho fatto per me”. Lola Delnevo ci racconta il viaggio in handbike da El Chalten a Ushuaia

“L’ho fatto per me, non per compiere un’impresa”. Ha le idee chiare Eleonora Delnevo, per tutti Lola, da poche settimane rientrata nella sua Val Seriana. Insieme alla lecchese Stefania “Steppo” Valsecchi, ha appena attraversato la Patagonia e la Terra del Fuoco in un viaggio ricco di incontri, scoperte, imprevisti… Un’avventura in completa autonomia, ad emissioni zero: la Steppo con una bici gravel, Lola sulla sua handbike. Esplorando in poco meno di un mese i confini geografici di queste terre selvagge (si sono spinte fino alla “fine del mondo” a Ushuaia), ma soprattutto varcando diverse barriere mentali: “Per trovare un equilibrio nella natura”, spiega Lola, oggi socia onoraria dei Ragni di Lecco. “E vedere se la disabilità mi consentiva un viaggio simile”. Nel 2015, infatti, in un incidente Lola ha perso l’uso delle gambe, ma non la sua passione per la montagna. Fino a realizzare questa spedizione, percorrendo (senza guide né mezzi di sostegno) 1.262 km, per un totale di 78 ore in handbike e oltre 11 km di dislivello.

Ma il valore della vostra avventura non si può certo ridurre ai numeri del GPS… Com’è nato questo progetto?

Il mio desiderio era di vedere questi posti mitici, inoltre in questo periodo avevo parecchio tempo libero. Quindi ho iniziato a pensare ad una vacanza memorabile… Dovevamo partire in quattro o cinque, per vari imprevisti siamo rimaste in due. Anche la “Steppo”, conosciuta grazie a Mario Conti, aveva in mente la Patagonia: nessuna di noi c’era stata e lì s’è scritta la storia della montagna.

Non a caso, siete partite proprio da El Chalten…

Un villaggio simbolo, sotto il gruppo del Fitz Roy e del Cerro Torre. Da lì siamo andate a El Calafate, da cui volevamo raggiungere le Torri del Paine. In realtà, la Ruta 40 era dissestata, così siamo dovute passare da Tapi Aike. Quindi abbiamo attraversato la dogana di Cerro Castillo, siamo andate verso le Torri del Paine e da lì a Puerto Natales. Abbiamo poi dovuto effettuare un’altra deviazione verso Villa Tehuelches e Ponsomby, quindi abbiamo ripreso la Ruta 9 e siamo arrivate a Punta Arenas. Con un traghetto abbiamo attraversato lo Stretto di Magellano fino a Porvenir. Qui abbiamo avuto un altro cambio di programma, per il crollo di un ponte: siamo andate verso l’altra costa e siamo rientrate in Argentina tramite la frontiera di San Sebastián. Grazie alla Ruta 3, l’unica agibile, abbiamo raggiunto Tolhuin, Paso Garibaldi e Ushuaia. Fino alla Bahía Lapataia, dove termina la Ruta 3. La “fine del mondo”! Da lì, in bus siamo rientrate a Río Gallegos.

Come vi siete preparate a questa spedizione?

Per un annetto abbiamo fatto delle prove tra Lecco, l’Engadina, il Vallese… Puntavamo a percorrere 60 km al giorno, ma la Patagonia ti fa cambiare in continuazione: poteva capitare di fare solo trenta km in un giorno, oppure anche più di cento a seconda delle condizioni. Mentre nelle uscite di prova poi tornavamo a casa a riposare, in Patagonia avevamo sempre gli inseparabili bagagli con noi… Io poi slittavo negli sterrati e, non camminando, dovevo affrontare mille disagi. Insomma, alla sera ero proprio cotta!

Da subito avete scelto di vivere quest’avventura in autonomia?

“Autonomia” è un parolone, avendo bisogno di aiuto in tutto… Però il desiderio era di tornare in montagna ed essere indipendenti. Ci siamo portate in bici tutto quello che serviva per campeggiare e spostarci, inclusa la sedia a rotelle. A me non piace vedere la montagna dalle finestre del rifugio: ho voluto proprio entrarci dentro. E vedere che effetto mi avrebbe fatto, perché neanche prima dell’incidente avevo mai vissuto un viaggio simile. Beh, è stata una tuonata!

Cosa ti ha donato questa avventura?

Mi porto nel cuore gli scorci, i paesaggi, soprattutto la gente. Persone semplicissime, che vivono di poco ma lo condividono sempre. Una sera non sapevamo dove dormire: la Ruta 40 era piena di cantieri, non potevamo bivaccare alle fermate del bus. Abbiamo bussato ad una estancia, ma non avevano posto. Fuori dalla casetta accanto c’era un agricoltore cileno, con la pelle bruciata dal sole. Ci ha ospitato in casa e ci ha perfino offerto la colazione. Non ha voluto nulla: “Siamo qui anche per aiutare gente come voi”, ha detto. Ma la cosa più strana è che nessuno capiva che ero disabile.

In che senso?

Forse perché di bici strane lì ne passano tante. Quando vedevano il pianale con la carrozzina, si stupivano. Ma anziché darmi la pacca sulla spalla (“che brava che sei, nonostante tutto…”), esclamavano: “Che bello che vai in giro così!”. Questo approccio mi ha dato una carica pazzesca. Non voglio passare per il “disabile eroico”, io ho fatto questo viaggio per me. Ma se sono riuscita anche a trasmettere il messaggio che perfino un disabile può far tutto ciò, son contenta.

Quali sono gli ostacoli principali secondo te?

Le handbike devono volare su un cargo e questo blocca molti. Economicamente è una bella sberla, ma senza una handbike assistita non si riesce a compiere un viaggio simile. Bisognerebbe trasportare i mezzi per i disabili, le bici e le batterie, non nel cargo. Noi siamo state fortunate a trovare sponsor che hanno appoggiato la nostra etica di un viaggio pulito e indipendente.

Guardando al futuro, hai già qualche altro progetto in mente?

Mi piacerebbe andare in Alaska, con gli sci, insieme ad Annalisa Fioretti: qualcuno vuole sostenerci?

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