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Scoperto in una grotta sullo Stelvio un rifugio della Grande Guerra perfettamente conservato

Avete mai provato a immaginare, camminando sui sentieri della Grande Guerra, cosa abbiano provato i soldati, italiani e non, a trascorrere rigidi inverni in quota tra le vette alpine? Un eccezionale ritrovamento effettuato sul Monte Scorluzzo (3084 m), vetta che domina il Passo dello Stelvio, può aiutarci a rispondere a tale curiosità. Si tratta di un rifugio militare austro-ungarico, perfettamente conservato, scoperto all’interno di una grotta poco sotto la cima. A preservarlo è stato il ghiaccio, accumulatosi nell’anfratto a seguito dell’abbandono del ricovero al termine del conflitto. Come si legge sul sito del Parco Nazionale dello Stelvio, capofila del progetto di recupero e salvaguardia del rifugio, condotto in collaborazione con il Museo della Guerra Bianca di Temù (BS), “ciò ha permesso la conservazione del manufatto e di oltre trecento reperti che aprono uno spiraglio di grande vividezza sulle reali condizioni di vita dei soldati nelle difficilissime condizioni di vita della Guerra Bianca.”

A differenza della baracca di guerra emersa in maniera naturale nei mesi scorsi sul Gran Zebrù (non per la prima volta), a seguito dello scioglimento anticipato delle nevi di vetta, il rifugio dello Stelvio è stato portato alla luce nella sua totalità grazie all’impegno di numerosi volontari. Sono state necessarie 4 estati – dal 2017 al 2020 – per sciogliere il ghiaccio accumulatosi nella grotta e procedere successivamente al recupero dei reperti e allo smontaggio delle componenti del ricovero, allo scopo di trasferirle a valle, così che esso possa essere ricostruito e reso visibile al pubblico all’interno di un museo.

La ragione per cui si è optato per smontarlo e rimontarlo altrove, come chiarito dal Parco, è rappresentata dall’“enorme valore storico e l’impossibilità di conservazione sul posto”. Al momento i resti sono ospitati presso il Museo della Guerra Bianca di Temù, in attesa della ricostruzione del rifugio presso l’area museale che avrà sede a Bormio, nel territorio laddove è avvenuto il ritrovamento.

Il tempo si è fermato al 1918

Difficile immaginare l’emozione dei volontari, una volta sciolto a sufficienza il ghiaccio protettivo da poter ammirare con i propri occhi l’antico ricovero. Sarà stato come salire a bordo di una macchina del tempo e viaggiare a ritroso fino al novembre 1918, momento in cui i soldati dell’esercito austro-ungarico, dopo 3 lunghi inverni trascorsi a 3000 metri, fortunatamente in un’area non interessata da grandi combattimenti, poterono finalmente tornare a casa.

“Capsula del tempo”, è forse questo il termine più idoneo a sintetizzare a cosa si siano trovati davanti, scelto con arguzia nel corso di una intervista rilasciata al The Guardian da Stefano Morosini, referente dei progetti di valorizzazione storica del Parco Nazionale dello Stelvio.

Quando gli Italiani persero lo Scorluzzo

Perché non si trattava di soldati italiani? Vi starete domandando. Perché lo Scorluzzo fu occupato da un contingente austro-ungarico nel giugno 1915. La ragione del successo di questo attacco a danno degli italiani è da ricercarsi nel fatto che l’Italia fosse da poco entrata in guerra, e gli sforzi dell’esercito erano allora concentrati più a Est, sull’Isonzo. Il ricovero fu dunque costruito dopo la conquista della vetta.

Si trattava di una baracca di legno, un rifugio spartano, all’interno del quale i soldati dormivano su giacigli di paglia, scaldati dal lieve tepore di coperte fin troppo sottili per il clima rigido dei 3000 metri.

L’esercito italiano provò a più riprese a riconquistare lo Scorluzzo, ma a causa di una serie di fattori, a partire dall’abbigliamento inadeguato alla impreparazione tecnica e anche il meteo avverso, la zona rimase in mano austriaca fino alla stipula dell’armistizio firmato a Villa Giusti.

Possibile mai che una volta andati via gli austriaci, nessuno abbia messo piede nella grotta? “La sera del 3 novembre del 1918 gli austriaci abbandonarono la posizione, dal comando italiano arrivò l’ordine di occuparla e i soldati del Regio esercito salirono pensando ancora di trovarsi di fronte i nemici – racconta a Il Dolomiti Walter Belotti, Presidente dell’Associazione del Museo della Guerra Bianca di Temù – . Invece li videro mentre stavano scendendo a valle. La grotta sullo Scorluzzo a quel punto poté essere visitata dai militari italiani, ma da quel momento in poi non fu più frequentata da nessuno”.

La scoperta del rifugio

Come anticipato, il rifugio è stato portato alla luce da mano umana, ma c’è sempre lo zampino del cambiamento climatico. Come di recente dichiarato dal medesimo Belotti al Post, la grotta è stata individuata nel 2008, proprio a seguito del parziale scioglimento del ghiaccio accumulatosi al suo interno: “All’epoca il ghiaccio si era ritirato di meno di un metro rispetto all’entrata. Però l’ho tenuto monitorato in caso fosse uscito qualcosa.”

Bisogna attendere pazientemente 7 anni prima di un significativo passo avanti nella storia. Nel 2015 il responsabile della Commissione Tecnico-Scientifica del Museo della Guerra Bianca, John Ceruti, in zona per girare un documentario, nota che nella parte superiore dell’accesso alla grotta si sia sciolto del ghiaccio in maniera sufficiente da creare una sorta di punto di accesso ampio 50 cm. Insieme al video operatore, Ceruti decide di provare a entrare, strisciando sotto il soffitto, fino a raggiungere il fondo della grotta, dove si imbattono in una cartolina e un paio di guanti. Particolare romantico: sulla cartolina era ancora perfettamente leggibile la scritta, in lingua tedesca, “Non ti scordar di me”.

Si parte con gli scavi

Per avviare gli scavi e le operazioni di recupero della struttura e dei beni in essa preservati per un secolo si è dovuto attendere il 2017. Tempo necessario per ottenere specifiche autorizzazioni da parte dello Stato e finanziamenti, che sono giunti oltre che dallo Stato Italiano, anche dall’Unione Europea e da Regione Lombardia per un budget totale di 3,2 milioni di euro di cui, come come evidenziato in una intervista al Corriere della Sera da Massimo Sertori, assessore alla Montagna, enti locali e piccoli comuni di Regione Lombardia, 500.000 finanziati tramite i Fondi per i Comuni Confinanti e i restanti da Regione Lombardia.

Una cifra che fa ben comprendere la dimensione e l’importanza del progetto, che risulta quasi riduttivo definire “archeologico”.

“Il nostro progetto vede coinvolti 11 centri di ricerca – ci evidenzia Stefano Morosiniche si occupano di diversi ambiti scientifici, dalla botanica alla glaciologia, dalla geomorfologia alla genetica e all’entomologia. La ricostruzione che si sta effettuando del sito è dunque non soltanto archeologica ma più ampiamente scientifica, multidisciplinare.”

CNR, università e musei, stanno collaborando, a livello non solo nazionale ma anche internazionale, nel condurre una ricerca estremamente interessante e innovativa.

Le operazioni di recupero sono andate a rilento, come anticipato sono state necessarie 4 stagioni, e la ragione è presto detta: il tema di lavoro è stato rappresentato da volontari del Museo di Temù, che di conseguenza hanno potuto dedicare alle attività di scioglimento del ghiaccio (con idropulitrici ad acqua calda) e recupero soltanto poche settimane l’anno. “Un impegno ammirevole”, commenta Morosini. I singoli pezzi, ogni trave, ogni vite, sono stati numerati e catalogati, così da poter mettere in atto una successiva ricostruzione in modalità puzzle del rifugio nel nuovo museo di Bormio che sarà ospitato in una torre rinascimentale nel centro della città. Il proposito, come spiegato da Sertori al Corriere, è di “far rivivere la storia della Grande Guerra ai tanti turisti che verranno e saranno ospitati in Alta Valtellina”, con particolare riferimento a quello che sarà un periodo di sicuro pienone turistico, ovvero l’occasione delle Olimpiadi di Milano-Cortina 2026.

Cosa racconta il rifugio dello Scorluzzo?

Scendendo nel dettaglio, i reperti recuperati ammontano a oltre 300. Reperti che da un lato raccontano la guerra, quali armi e munizioni, dall’altro documentano l’esperienza di vita quotidiana estrema di questi soldati che stavano a 3000 metri, che a quanto pare non se la passavano molto meglio degli italiani. Disponevano di poco cibo e di scarso equipaggiamento, tra l’altro di bassa qualità. Basti pensare che tra le coperte ritrovate ve ne sia soltanto una di lana. Le altre erano in fibre vegetali. Al posto delle calze i soldati erano costretti a creare delle pezze da piedi con ritagli di coperte e sono stati anche ritrovati pantaloni rattoppati con toppe ricavate dai sacchi di iuta.

Semi che germogliano dopo un secolo

Una scoperta interessante, non tanto sul piano storico quanto botanico, riguarda la presenza di semi di geranio selvatico, rimasti protetti nella paglia dei giacigli che, nel corso del trasporto del materiale a valle in sacchi di plastica, sono riusciti a germogliare. I volontari, stupiti alla vista delle giovani piantine tra i reperti, le hanno prontamente trasferite in terra, consentendone l’accrescimento. Le piante sono in corso di analisi da parte degli esperti dell’ERSAF per valutare quanto il geranio selvatico di 100 anni fa e l’attuale risultino differenti su base genetica.

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2 Commenti

  1. “o vigliacchi che voi ve ne ste con le mogli sui letti di lana..” valeva da entrambe le parti..a cominciare dai reucci o imperatorucchi …poi via via a scendere nella scala gerarchica , come pure “armiamoci e partite..”
    A presto il museo , una relazione scritta ed un documentario per noi.Personalmente camminando a zonzo in zona dolomitica de fronte , trovati mucchi di travi e assi ingrigite dai fattoriatmosferici, poi da foto forse si trattava di garitta di legno per sentinella alpina.

  2. “Basti pensare che tra le coperte ritrovate ve ne sia soltanto una di lana. Le altre erano in fibre vegetali. Al posto delle calze i soldati erano costretti a creare delle pezze da piedi con ritagli di coperte e sono stati anche ritrovati pantaloni rattoppati con toppe ricavate dai sacchi di iuta.”
    In caso di diserzione, corda pronta, in caso di mancanze nel servizio militare :vergate e appendimenti a braccia legate dietro.Fame nera per tutti..almeno fino a Caporetto, poi depredarono la Pianuta Veneto- friulana.
    Intanto Cecco Beppe stava a Vienna imperturbabile e magari forse con qualche ballerina prenotata dopo lo spettacolo.

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