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K2. Epilogo amaro

Che storia è mai questa del K2 dell’inverno 20/21? È la storia dell’alpinismo, quindi degli uomini che sul K2 si agitano, e che si evolve e talvolta come accade agli eventi della storia ritorna indietro.

I protagonisti

Primo atto. Tre gruppi di nepalesi, decidono che il più ambito record dell’alpinismo, il K2 in inverno, deve essere loro e il 16 gennaio sono in cima. Chi sono?  Il gruppo del comandante Nirmal “Nims” Purja con 5 alpinisti sherpa ottimamente addestrati e motivati alla “battaglia”; il team di Mingma G. Sherpa con altri due ottimi alpinisti sherpa, motivati della voglia di dimostrare il valore degli uomini della propria etnia a prescindere dai paganti alpinisti occidentali che normalmente servono; la Seven Summit, la più potente agenzia al mondo per l’organizzazione di spedizioni alpinistiche, che è nepalese ed è rappresentata in vetta da Sona Sherpa.

La vetta nepalese

Facciamo un passo indietro. Come spesso accade al campo base, davanti a una tazza di tè, vengono elaborate le strategie. K2 in invernale non consente però certo troppe fantasie: di fatto viene messo in atto un patto di collaborazione tra i gruppi, che si andrà a esplicitare sul terreno. È in questo momento che le possibilità di successo dell’impresa crescono in modo consistente. La montagna poi pare lasciarsi lisciare il pelo e il meteo segna una positiva percentuale di giornate belle e ancor meglio con venti “accettabili”. A fine dicembre si raggiungono i 7000 metri, ma poi il vento si porta via gran parte dell’attrezzature. Il 12 gli uomini di Seven Summit hanno ripristinato i campi insieme a Nirmal e Mingma G. con le loro squadre. Il 15 il tempo continua ad essere bello e Mingma sale fino a 7800 metri con i suoi, Sona e alcuni uomini di Purja. Mentre rientra decide che anche lui farà il tentativo di vetta con l’ossigeno. Il comandante Nims, che invece è rimasto a campo 3 a 7300m, tiene d’occhio e arringa i suoi e gli altri, coopta Mingma G. come vicecomandante e la sera della vetta motiva tutti come con l’armamentario eroico della conquista, della gloria collettiva e personale. Lo ha ben imparato nei reparti d’assalto inglesi. Qualcuno tentenna, ha paura di rischiare la vita, congelamenti gravi, vuol scendere dalla montagna, ma lui si impone: la gloria del Nepal val ben il rischio. Lo racconterà Mingma G., al suo ritorno. Fatto sta che tra l’una e le due di notte si incammina verso la vetta il commando composto da 9 alpinisti con ossigeno, che garantiscono la capacità di sfondamento e tenuta e da uno, Nims, senza ossigeno, per scelta e maggiore gloria. Non puoi salire una montagna se non te lo lascia fare, dirà saggiamente Mingma G. al ritorno e quel giorno la montagna è stata particolarmente benigna con i 10 ragazzi nepalesi. Non c’era una nuvola nel cielo infinito del Karakorum. L’essersi presi per mano per porre piede insieme sulla vetta è stato poi un gesto bello e tipico della buona amicizia che i nepalesi riescono a mostrare.

Sì, ci voleva un commando di grandi professionisti con piglio militare e un comandante risoluto, fino a “minacciare di fucilare i disertori” per salire il K2 d’inverno. Con buona pace di tutti coloro che ci raccontano di un alpinismo giocoso, gaio, privo di competitività e nazionalismo. Epurata da qualche scoria ideologica e iper-patriottica, quella nepalese è stata una buona e anche bella “vittoria” (lasciatemi usare questa parola considerata politically incorrect).

Le vittime del K2

Ci sono però anche i morti di questo K2, quasi inevitabili vien da scrivere con dolore e rabbia. Il K2, come tutte e molto più della maggior parte delle montagne, è un terreno difficile, complesso, rischioso. È il luogo privilegiato dei pericoli oggettivi (caduta di valanghe, sassi e ghiaccio, improvviso cattivo tempo, ecc.) e di quelli soggettivi (impreparazione, cattivo equipaggiamento, imprudenza, disattenzione, ecc.), che insieme determinano su un piano statistico l’esito a volte tragico della “sfida” non alla montagna, ma alla nostra capacità di salirla.
Lo spagnolo Sergi Mingote, ottimo alpinista è precipitato dal campo 1 e ha perso la vita il 16 gennaio. I nepalesi arrivano in vetta e lui, nello stesso momento, muore tremila metri più in basso. Muore il 5 febbraio il bulgaro Atanas Skatov precipitando da sotto campo 3 fino al campo base avanzato.

La perfetta strategia nepalese

Il 5 febbraio dal campo tre partono in quattro: John Snorri, Juan Pablo Mohr, Ali Sadpara e suo figlio Sajid Sadpara. Juan Pablo, Ali e Sajid senza ossigeno. Quando il ragazzo inizia a non stare bene per la quota, il padre gli fa mettere la bombola dell’ossigeno portata per sicurezza, ma l’erogatore non funziona e decide di rinunciare; scende e si salva la vita. Gli altri tre salgono e l’ultimo avvistamento è nella zona del Collo di Bottiglia. Poi il nulla. Quando vengo informato di questo e per chiedermi cosa ne pensassi, so già che se non tornano indietro entro breve il loro destino è segnato. Non è cinismo, è matematica.

Come già scrissi la vetta del K2 era difficilmente scalabile in inverno, anche quest’anno. La coalizione dei nepalesi ha però portato alla formazione di una super cordata, “un commando” di 10 persone. Numero perfetto. L’azione da loro messa in campo è stata semplice ed efficace: anche nella peggiore delle ipotesi la forza degli individui e della squadra avrebbe consentito a tutti da andare fino al Collo di Bottiglia e forse al di là del Traverso, sotto il grande seracco. La squadra avrebbe consentito un risparmio collettivo di energie fisiche e psicologiche e una buona velocità si salita. Se anche qualcuno fosse avesse poi deciso di rinunciare e scendere, gli alpinisti rimasti da quel punto avrebbero avuto comunque buone possibilità di farcela e di portare in vetta il loro comandante con la bandiera. Strategia militare semplice e efficiente.

Per gli altri di Seven Summit (sherpa e clienti) e delle spedizioni private separate l’unica possibilità per provare ad arrivare in vetta era quella di accodarsi subito ai nepalesi. Solo loro avrebbero potuto, se gli altri avessero avuto il valore individuale, fare da scudo e apripista. Da soli le possibilità erano pressoché nulle, anche se al campo base c’erano ancora molti alpinisti di valore. Ma quella successiva non sarebbe più stata “una spedizione” per la vetta, ma una spedizione commerciale con clienti e sherpa/lavoratori.

Dopo il 16 gennaio tutti sono rimasti al campo base a piangere Mingote e poi a festeggiare i compagni nepalesi dopo la loro vittoria. Bisognava fare un tentativo ancora? Si, per l’onore della bandiera e gli sponsor, ma con prudenza e senza prendersi rischi. Come ha fatto la nostra amica Tamara Lunger, che con Juan Pablo Mohr e un’altra dozzina di compagni era salita a campo tre, ma con il cuore già in discesa. Juan Pablo invece si aggrega a Snorri e a Sadpara. Alle 11 erano al Collo di Bottiglia, poi più nulla.

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