Storia dell'alpinismo

Il riscatto di Walter Bonatti sul Dru

Dru, suono gutturale e sincopato. Sintesi, talvolta drammatica, dell’estetica e delle aspirazioni alpinistiche di più generazioni e scuole di arrampicatori estremi: “Una delle più pure meraviglie della catena del Monte Bianco”, così lo descrive la Guida Vallot, bibbia della montagna più alta d’Europa.

Il Dru era il luogo del perfetto riscatto, alpinistico e psicologico, alla frustrazione subita l’anno prima da Walter Bonatti sull’altro simbolo estremo dell’alpinismo: il K2.

Siamo nel 1955, il 17 agosto Bonatti inizia la sua avventura solitaria sul “Pilasto del Dru” che da quel momento diventerà il “Pilastro Bonatti”.

La solitudine

Sale magistralmente per quattro giorni la parte iniziale e mediana della parete, con difficoltà sempre estreme, adottando una tecnica di sicurezza che lo costringe a salire prima in arrampicata autoassicurato, a ridiscendere recuperando i chiodi e poi a risalire sulle corde. Lo zaino è pesantissimo, il tempo a un certo punto si guasta poi migliora, nella lotta con il granito si procura più d’una ferita alle mani e alle braccia. È però il peso psicologico quello più difficile da portare: “La solitudine che mi accompagna è così assoluta, allucinante, che più volte mi sorprendo a parlare inconsciamente, a fare considerazioni ad alta voce, a tradurre insomma in parole tutti i pensieri che attraversano la mia mente. Mi trovo persino a discorrere col sacco, come avesse un’anima, come fosse un vero compagno di cordata“.

Il quinto giorno Bonatti si trova alle “placche rosse”, sopra si sporgono i grigi strapiombo che precedono l’ultimo quarto della salita. È al fondo di un’enorme conchiglia con i bordi superiori protesi su 800 metri di vuoto. Il suo cervello analitico e meticoloso prende in considerazione le poche possibilità di salire, decide per una fessura a sinistra che però dopo 20 metri diventa impraticabile.

Sente un “aerino” che ronza vicino, lo vede, si sporge con un braccio e una gamba, ma una nube bianca lo ghermisce e nasconde; il ronzio s’allontana e la solitudine diventa ancora più opprimente.

A mezzogiorno è sempre fermo sulla cengia dove aveva bivaccato.

Il genio e la follia

L’idea è geniale e folle allo stesso tempo. Sulla destra Bonatti intravvede una fessura, che intuisce di dimensioni adatte a ricevere i chiodi che ha con sé e che lo porterebbe fuori dagli strapiombi. Ma è poco più di un’intuizione. Per raggiungerla potrebbe affidarsi a dei pendoli nel vuoto. La manovra è azzardata e inusuale, certo, da solo poi, su quella parete… una follia! Ma è anche razionale quanto Bonatti, che sa che quella è la sola via d’uscita.

Sono tre le “pendolate” che compie, per circa 40 metri. L’ultima lo porta su un “aereo gradino” oltre il quale inaspettatamente il Dru ha risucchiato all’interno di sé una porzione delle rocce, appigli compresi. Il nulla, liscio e strapiombante, lo divide dalla fessura salvifica. Il ritorno è precluso: i pendoli erano in discesa verso destra e risalirli è fuori da ogni possibilità. La fessura è a15 metri e lo sconforto totale, per un’ora intera, minuto dopo minuto.

Poi il lampo. L’idea è ancora una volta geniale, perversa, azzardata: è l’unica.

Sopra di lui a 12 metri c’è un’escrescenza di lame di granito, paiono in disequilibrio, precarie, ma forse no. Pensa e agisce: fa dei nodi sulla corda e come una “bolas” la lancia sulle lame nella speranza si incastri e agganci, ma soprattutto che lo possa sorreggere. 10, 30, 50 tentativi. Poi finalmente la corda si incastra. È un azzardo, estremo. Si autoassicura con l’altra corda, ma se qualcosa non funzionasse sarebbe comunque in disastro. Si lancia a occhi chiusi, con tutto il respiro dentro. Tiene, risale la corda e finalmente si riversa esausto e congestionato sulle lame di granito che evidentemente non erano così precarie.

La fessura che aveva intuito non c’è e la parete strapiomba formando un incavo dove Bonatti trova la forza di issarsi, palmo dopo palmo; di fatto in arrampicata libera. La corda finisce e deve sganciare l’autoassicurazione, trattenendo il solo capo della corda. La situazione diventa ancor più difficile quando la corda si incastra e lui finisce in una zona di rocce “cedevoli, quasi tenera come il gesso”. Pianta una serie di chiodi e affida a quest’ancoraggio improbabile la sua vita mente sfila per recuperare il sacco e la corda. È fuori dalla “grande abside”, ora la montagna sarà più benigna con lui.

Ancora due pendoli per tornare di fatto poco sopra la zona di partenza dell’intera lunga manovra e finalmente la parete si “adagia”. È ormai buio ed è su un buon terrazzino. “Adesso sento di avere in pugno il Pilastro del Dru. Ma sento soprattutto di aver varcato ben più lontani e invisibili confini. So di aver superato la barriera che mi separava dall’anima, e ancora sento, finalmente, di aver sciolta il mio nodo interiore, un trauma che viene dal K2. Nell’emozione di questo momento mi accorgo di avere gli occhi bagnati di lacrime”.

È il sesto giorno, ancora qualche tentativo della montagna di resistere: un masso si stacca e lo colpisce a una gamba, ma alle 16,37 è sulla cima. Solo uno sguardo, niente “beatitudini di circostanza”. Lui è il Dru e lo sa bene, nient’altro conta.

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