Alpinismo

Voglia, compagni giusti, strategia. Tommaso Lamantia racconta la sua vittoria sul K2

Il 28 luglio 2024 l’alpinista lombardo arriva da solo sugli 8611 metri del K2. Un’impresa di cui si è parlato troppo poco e che sta per essere narrata da un documentario e da una serie di serate

Si può definire “carina” la montagna più severa e pericolosa della Terra? Parlando con Tommaso Lamantia, il primo dei due italiani a raggiungere la vetta del K2 nell’estate del 2024 (l’altro, Federico Secchi, è arrivato lassù ventiquattr’ore più tardi), quell’aggettivo che nessuno si aspetta viene fuori dopo pochi minuti, e poi ricompare di nuovo. 

Certo, Tommaso non usa la parola “carino” per descrivere il meteo che ha trovato sulla montagna (“43 giorni di maltempo su 45”), né la fatica dell’ascensione, che ha compiuto senza bombole di ossigeno. Né la tensione continua della discesa, soprattutto nei 300 metri di traverso tra il campo 4 e il campo 3, dove non c’erano corde fisse. 

“Carino”, anche se in parte girato con un cellulare, è “Karakorum²”, che si legge “Karakorum al quadrato”. Il documentario che racconta l’avventura di Lamantia e dell’intera spedizione del CAI di Biella (Gian Luca Cavalli, Donatella Barbera, Matteo Sella, César Rosales e Dario Renieri), verso gli “ottomila” affacciati sul ghiacciaio Godwin Austen. 

Se si guarda alle salite effettuate il bilancio della spedizione biellese, realizzata con il decisivo contributo della sede centrale del CAI, è ampiamente positivo. Lamantia ha toccato gli 8611 metri del K2, Sella si è fermato qualche centinaio di metri più in basso, alla fine del Collo di Bottiglia. Cavalli e il peruviano Rosales hanno raggiunto gli 8047 metri del Broad Peak.
Nei resoconti della televisione e dei giornali italiani si è parlato molto della spedizione femminile italo-pakistana diretta da Agostino Da Polenza, un po’ dell’arrivo in vetta di Federico Secchi e dell’incidente occorso al suo compagno di avventura Marco Majori, ma pochissimo di Lamantia (che è lombardo, di Varese) e della spedizione di Biella. Tommaso non vuole fare polemiche, ma raccontare un’esperienza e un’avventura straordinarie.

Nelle prossime settimane “Karakorum²” verrà presentato in serate in tutta Italia. Cosa puoi anticipare ai nostri lettori?
Intanto va detto che la regia è di Yuri Palma, io ho girato le immagini. Lavoro da anni come fotografo e videomaker, sono entrato nella spedizione biellese grazie a quello. Nell’avvicinamento e sulla parte bassa del K2 ho usato un’attrezzatura professionale. Durante il tentativo alla vetta, però, mi sono concentrato sulla parte alpinistica, e oltre il campo 2 ho girato con il telefonino.

Come valuti il documentario?
E’ carino, usa un tono giusto, racconta l’intera avventura voluta dal CAI di Biella, compresa l’ascensione di César e Gian Luca al Broad Peak il 27 luglio, il giorno prima del mio arrivo sul K2. 

Oggi tanti alpinisti tentano di collezionare “ottomila”. Tu invece ti presenti alla base del K2 senza averne mai salito nemmeno uno, e arrivi in vetta. Com’è stato possibile?
Sono un alpinista esperto, sono socio del Club Alpino Accademico e tecnico del Soccorso Alpino lombardo. Ho salito il Cerro Torre e vari “seimila” delle Ande, non ero mai stato così in alto. Mi sono avvicinato al K2 con rispetto, e ho azzeccato la strategia giusta. 

Che vuol dire? Voi avevate i permessi per il K2 e per il Broad Peak. Tutti pensavano che avreste salito prima la cima più bassa e poi la più alta.
L’idea era quella, ma due alpinisti straordinari come Denis Urubko e Victor Saunders mi hanno detto “se vuoi salire il K2 non ti distrarre, preparati sul K2”. Abbiamo fatto l’avvicinamento insieme ai francesi, e anche il più esperto di loro, Jean-Yves Fredriksen detto Blutch, mi ha invitato a non sprecare energie. 

Ma tu un tentativo al Broad Peak lo ha fatto. Oppure no?
Insieme a Matteo ci siamo preparati con quattro rotazioni sulla via Kukuczka del K2, fino a 6100 metri di quota, scendendo con il parapendio. Ho imparato da Benjamin Védrines ad approfittare del tempo, muovendomi anche in giornate così così. Quando Matteo è stato bloccato al campo-base dal mal di denti sono andato con Gian Luca e César sul Broad Peak, ma una bufera ci ha bloccato a 7000 metri. Poi sono tornato sul K2. 

Negli ultimi giorni di luglio, finalmente, è arrivata la finestra di bel tempo. Come siete saliti tu e Matteo?
Il 26 luglio siamo arrivati al campo 2 dello Sperone Abruzzi. Il giorno dopo abbiamo continuato verso il campo 3. Mi ha fatto impressione scoprire che noi due, senza bombole, eravamo più veloci dei clienti delle spedizioni commerciali. 

L’ultima parte della salita com’è andata?
Nel Collo di Bottiglia non è stata semplice, perché i tanti alpinisti in discesa sfondavano le tracce e ci facevano cadere addosso neve e ghiaccio. Matteo non stava bene, andava sempre più lentamente. Alle 13, all’inizio del traverso, ci siamo fermati a riposare e lui ha deciso di scendere. E’ stato un grande. 

Da lì verso la vetta, da solo.
Sì, ho impiegato tre ore e mezzo per il traverso e la cresta finale, sono arrivato in cima alle 16.45 trovando gli ultimi francesi che stavano per decollare con il parapendio. Sono rimasto solo pochi minuti.


E poi la discesa, l’incubo di molti alpinisti sul K2…
Ero preoccupato, arrivare lassù senza bombole non è uno scherzo. In discesa sono rimasto lucido e concentrato, e non mi sono mai seduto. Sapevo delle interruzioni delle corde fisse, ero preoccupato di quella tra i campi 4 e 3 dove sono passato al buio. Alle 22 ho ritrovato Matteo al campo 3, era fatta! L’indomani siamo scesi al campo-base, ed è scattato l’allarme per Marco Majori. 

Cosa vuoi raccontare di quelle ore?
In quel punto della discesa si rischia di sbagliare, di finire sul versante cinese. Quando Federico Secchi ha detto per radio “ci siamo persi” c’è stato il panico. Io e Blutch, entrambi membri del Soccorso, volevamo far partire subito una squadra, ma gli altri non hanno voluto. Per fortuna ha risolto tutto Benjamin Védrines, che era al campo 2 per recuperare del materiale e aveva le forze per risalire.

Tu hai scelto la strategia giusta, e infatti sei arrivato sul K2. Perché, secondo te, la spedizione femminile non ce l’ha fatta?
Dico solo una cosa, quando hanno iniziato il tentativo di vetta sono partite di notte, e sono salite velocissime. Ne valeva la pena? 

Come sono stati i rapporti con la spedizione diretta da Agostino Da Polenza?
Molto scarsi, noi siamo sempre stati totalmente indipendenti, anche nel programmare il tentativo alla vetta. Ci vedevamo, ci salutavamo, ma io non sono mai stato invitato a cena da loro. Mi è dispiaciuto. Noi siamo italiani, e Da Polenza lì rappresentava l’Italia.

E il team della RAI?
Massimiliano Ossini una volta è passato a salutarci, ma non ci ha fatto domande sulla nostra spedizione. Dopo la vetta si è congratulato via Whatsapp, e mi ha fatto molto piacere. Ma il documentario trasmesso dalla RAI non parla di noi. 

A chi dedichi la tua vittoria sul K2?
A mia moglie Stefania, che due giorni prima della partenza mi ha annunciato di essere incinta, ed è rimasta sola nel periodo più difficile della gravidanza. E a nostra figlia Olivia, che è nata da due settimane. 

Tags

Articoli correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Back to top button
Close