Cosa è successo su Kimshung e Langtang Lirung: intervista a Francesco Ratti
L’alpinista del team Millet faceva parte della spedizione valdostana che ha rinunciato alla vetta per soccorrere Holecek e Huserka. E ci racconta come è andata
Anche se la vetta del Kimshung (6781m) non è arrivata per il team di valdostani appena tornato dal Nepal, è comunque stata un’esperienza profonda ricca di vicissitudini da raccontare. Abbiamo incontrato l’atleta Millet Francesco Ratti, appena sbarcato in Italia, che ha fatto luce sul primo tentativo alla vetta e sul soccorso alla cordata di Marek Holecek e Ondrej Huserka.
La spedizione è iniziata molto bene, ci siamo acclimatati in fretta e nel giro di una settimana avevamo già compiuto due rotazioni in quota e individuato la linea di salita. Le condizioni della montagna non erano eccezionali, molto più secche rispetto a quando Emrik Favre e Francois Cazzanelli avevano fatto il loro primo tentativo nel 2016. Le pareti sono più asciutte, i ghiacciai si sono ritirati tanto, esattamente quello che sta succedendo sulle Alpi. La via tentata nel 2016 non è più praticabile e così abbiamo deciso di salire da un altro versante, da est.
Così ci siamo divisi in due cordate: insieme a Francois Cazzanelli, Jerome Perruquet e Giuseppe Vidoni siamo partiti per la vetta principale, mentre Roger Bovard, Emrik Favre e Stefano Stradelli si sono diretti verso il Kimshung Shar (6305m), la vetta più bassa del massiccio ma comunque molto interessante.
Il primo tentativo
Una volta organizzati i campi avanzati, abbiamo dovuto aspettare qualche giorno il momento giusto perché il vento era sempre fortissimo. Fino a 5500/6000 metri era ancora sopportabile, dopo diventava davvero violento. Quando finalmente siamo partiti per il nostro tentativo, è andato tutto benissimo, almeno inizialmente. Abbiamo salito questo canale a nord-est che ci ha portato al colle sotto la cima. Da lì abbiamo ancora percorso una crestina di misto e siamo arrivati sotto l’ultimo pendio di neve che porta in cima, a circa 6500 metri. Lì, però, il vento era davvero forte e i circa trecento metri che ci mancavano non erano per nulla banali. Diventava pericolo proseguire in quelle condizioni e abbiamo preferito scendere.
Il soccorso
A quel punto avevamo ancora dieci giorni per un secondo tentativo e gli ultimi due o tre sembravano essere perfetti, il vento si sarebbe placato. Appena partiti per salire al campo avanzato, però, ci arriva una richiesta di soccorso. Marek Holecek e Ondrej Huserka, infatti, erano partiti una settimana prima per salire sul Langtang Lirung, la cima dirimpettaia al nostro campo base. Fin da subito li avevamo seguiti con il binocolo e li avevamo guardati conquistare la vetta a 7227 metri. Poi li abbiamo visti scollinare sull’altro versante e ne avevamo perso le tracce. In discesa, però, a circa 5400 metri, qualcosa è andato storto. Marek aveva mandato un messaggio di SOS la sera prima e dal villaggio ci hanno contattati via radio la mattina per chiederci di intervenire. Non ci hanno dato molto informazioni, sapevamo solo che c’era di mezzo un crepaccio ma non sapevamo nient’altro.
Abbiamo annullato il nostro tentativo e abbiamo iniziato a organizzare un soccorso. Teto ed io siamo scesi al campo base di Marek e Ondrej per stabilire un contatto con i loro compagni di spedizione, mentre gli altri hanno iniziato a risalire il ghiacciaio insieme al fotografo Damiano Levati che da subito ha iniziato i sorvoli con il drone. Con il drone abbiamo individuato le loro tracce di discesa che si interrompevano davanti a un crepaccio. Vicino al crepaccio c’era un sacco a pelo giallo probabilmente lasciato da Marek per segnalare il posto. Dei due, però non c’era traccia e con così poche informazioni era difficile capire cosa fosse successo. Abbiamo continuato i sorvoli con il drone tutta la mattina e nel pomeriggio è arrivato anche un elicottero da Kathmandu. L’elicottero ha cercato Marek finché c’è stata luce, ma nulla. La sera abbiamo deciso di scendere nel villaggio di Kyangin Gompa per poter avere una connessione internet e così facilitare l’organizzazione dei soccorsi per il giorno dopo. Lì, abbiamo incontrato David Goettler e Nicolas Hojac che si sono subito attivati insieme a noi per coordinare le operazioni. Nel pieno dell’organizzazione dei soccorsi, qualcuno apre la porta. Era Marek!
Ovviamente sotto shock, ha iniziato a dare delle spiegazioni molto confuse. Poi ha iniziato a bere birra, ne avrà bevute quindici una dopo l’altra e questo non ha aiutato a capire cosa fosse successo. Dal suo racconto sembrerebbe che mentre si stavano calando su una abalakov, la sosta è saltata e Ondrej è finito in questo crepaccio. Marek, che invece era in sicurezza, si è calato dentro il crepaccio ma il compagno era troppo in profondità e troppo incastrato per poter essere salvato. È rimasto con lui fino alla sua morte e poi è tornato in superficie e si è incamminato verso valle. Dove sia passato è un mistero!
Il corpo di Ondrej è poi stato recuperato qualche giorno dopo: era a 40 metri di profondità.
La versione di Marek
Intanto l’alpinista ceco, vincitore del Piolet d’or nel 2018, ha raccontato sui social l’incidente e la straziante morte del compagno. Mi sono calato nel crepaccio. Ondraj era vivo. Man mano che scendevo, la luce diminuiva. Quando atterrai sul fondo, tutto era buio. Ma ancora non sapevo da dove provenisse la voce. Dall’alto cominciarono a cadere sul mio casco dei frammenti di ghiaccio, staccati dalla corda, uno dei quali diede un colpo secco alla mia spalla. Ignorando il dolore, continuai. La galleria ghiacciata si restringeva in uno scivolo buio, quasi un toboga, privandomi di qualsiasi visibilità, finché non toccai improvvisamente la sua mano. Contatto… Ondra urlò: “Tirami fuori, ti prego”. Passarono minuti di inutili tentativi. Provai, respirando pesantemente, a tirare, senza successo. Lo spazio era stretto, ghiacciato e scivoloso. La mia mente non riusciva nemmeno a concepire come fosse incastrato lì. Finalmente i miei pensieri divennero razionali. Una cosa che mi impediva di tirarlo fuori era il suo zaino. Estrassi un coltello dalla tasca e aprii con cura il suo zaino, gettando il contenuto dietro di me lungo lo scivolo di ghiaccio: sacco a pelo, guanti, giacca e così via. Poi ho sentito un piccolo oggetto duro, che si è rivelato essere una lampada frontale. Vittoria! L’ho accesa e l’ho messa in testa. Finalmente potevo vedere. Un piccolo successo. Poi l’orrore: Ondraj era incastrato a testa in giù, con un braccio intrappolato. Tirare il braccio libero era inutile. Potevo solo fare dei movimenti mirati per liberarlo. In quel piccolo spazio, mi ci sono volute circa due ore per riuscire a girarlo. Alla fine riuscii a tirare Ondraj su di me. Entrambi respiravamo pesantemente, esausti. “Cosa ti fa male?” Chiesi.” Niente”. “Allora muoviamoci, usciamo da questo buco.”
I suoi movimenti erano stranamente rigidi. All’inizio lo attribuii al tempo che aveva trascorso al freddo, poi capii.
Una colonna vertebrale spezzata e palpebre gonfie che non avrei voluto vedere, indicavano la cattiva notizia… Non sentiva più le gambe e le braccia erano paralizzate. Le sue risposte e la sua consapevolezza erano totalmente confuse. La sua stella si stava spegnendo mentre giaceva tra le mie braccia… è durato ore. Come ho fatto a uscire da quell’inferno e ad attraversare il ghiacciaio selvaggio il giorno dopo non ha importanza. Sono qui e chi mi ha dato questa possibilità ha voluto che potessi raccontare questa storia. In cambio, sono gravato dal dolore e dalle immagini che porterò con me fino all’ultimo respiro. Mi dispiace tanto per Ondraj, un ragazzo meraviglioso, uno scalatore esperto e un sorriso costante. Pensieri di auto-colpevolizzazione mi perseguitano: perché lui e non io? Questo dolore è mio e posso solo condividerlo.
Intanto Marek è tornato a casa e in questi giorni è impegnato con la presentazione del suo nuovo libro “Touching Happiness”. Forse non proprio un titolo azzeccatissimo in questo momento.