Alpinismo

21 giugno 1954, la morte improvvisa di Mario Puchoz al K2

La scomparsa della guida di Courmayeur, uccisa dal mal di montagna, è il momento più triste della spedizione italiana al K2. Dopo un commovente funerale e diverse discussioni sull’opportunità di continuare, la salita riprende

Il 27 giugno del 1954, domenica, una piccola processione si snoda ai piedi del K2. In testa cammina Cirillo Floreanini, magro e con la barba lunga, che porta una croce alzata verso il cielo come nelle cerimonie della sua Carnia. Lo seguono gli altri alpinisti e il professor Desio, tutti profondamente commossi. Anche i portatori Hunza, come racconta Pino Gallotti nel suo diario, “accusano il vuoto incolmabile che sembra circondarci”.

La processione ai piedi del K2 è un funerale. Mario Puchoz, 35 anni, guida di Courmayeur, si è spento sei giorni prima al campo II, a quasi 6000 metri di quota, ucciso dal mal di montagna. Poi, per quattro interminabili giorni, il maltempo ha impedito di riportare il suo corpo a valle. 

Pino Gallotti, che ha camminato con Mario tra Skardu e di Askole, scrive di lui nel suo diario. “Era appartenuto al Battaglione Monte Cervino, aveva fatto tutta la ritirata di Russia combattendo”. “Aveva lavorato a lungo al Col du Midi, estate e inverno a 3500 metri”. “Non sapeva cosa fosse una malattia, un semplice raffreddore”.

Il 26 giugno, quando il maltempo si placa, il corpo senza vita di Mario viene calato con gli argani utilizzati per issare il materiale sui pendii accanto allo Sperone Abruzzi. Quando arriva alla base, Desio gli appunta al petto una coccarda tricolore. Poi il mesto corteo raggiunge il campo base. 

Intanto, nonostante il maltempo, Ubaldo Rey – anche lui guida del Monte Bianco – e Achille Compagnoni hanno raggiunto la roccia dove, un anno prima, gli americani della spedizione diretta da Charles Houston hanno eretto un memoriale per ricordare Art Gilkey, bloccato da una flebite e portato via da una slavina oltre i 7000 metri di quota. 

Rey e Compagnoni, con Gallotti, Floreanini ed Erich Abram e con l’aiuto di cinque Hunza, hanno scavato una fossa destinata ad accogliere l’amico scomparso. Mario Fantin, cameraman e fotografo, ha preparato una targa di metallo, altri hanno realizzato una croce. 

Domenica 27, nella prima parte del tragitto, il corpo di Mario Puchoz, avvolto in un sacco a pelo d’alta quota, viene trainato su una slitta costruita con un paio di sci. Nell’ultimo tratto, più ripido, il feretro viene trasportato a braccia. 

Pino Gallotti recita il “De Profundis”, poi tutti cantano “Montagnes valdôtaines”, l’inno delle guide valdostane. Dopo la copertura della tomba, qualcuno trova delle zolle di muschio e dei piccoli fiori, autentici miracoli della vita a oltre 5000 metri di quota. Una splendida foto scattata da Fantin ricorda quel momento commovente.  

Un mese e mezzo più tardi, dopo l’arrivo in vetta di Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, il capospedizione Ardito Desio ricorderà nuovamente Mario Puchoz, “che riposa per sempre accanto a quello che fu il nostro quartier generale, tra queste meravigliose montagne che ci hanno dato in due mesi grandi gioie e grandi dolori”. 

Avevamo promesso di onorare la sua memoria con la scalata del K2, prosegue il professore friulano, “la promessa è stata mantenuta”. Prima di ripartire, gli alpinisti tornano al memoriale dei caduti, dove vengono fissate tre targhe incise nel metallo. 

La prima ricorda i due principi, Luigi Amedeo di Savoia Duca degli Abruzzi e Aimone Roberto di Savoia Duca di Spoleto, “che guidarono due spedizioni italiane tra queste montagne”, la seconda è dedicata a “tutti i caduti del K2”. La terza ricorda Mario Puchoz “guida alpina del Monte Bianco”. 

Avevamo lasciato la spedizione del 1954 al termine del lungo viaggio, prima in aereo e poi a piedi, dall’Italia al campo-base del K2. Il lavoro sullo Sperone Abruzzi è iniziato il 25 maggio, ed è stato impegnativo e pericoloso. Pino Gallotti ha annotato con preoccupazione che “man mano che si sale, si vede la montagna crescere sopra di noi”. I campi, poi, “sono piazzati in posizioni assai precarie”, e “un bello spiazzo accogliente non lo si vede mai”.

Ma la voglia di salire è tanta, gli alpinisti sono sereni e pian piano si sale, con l’aiuto della teleferica per issare i carichi sul pendio di neve dello Sperone. Girare la manovella è una fatica bestiale, e tra i più assidui c’è Lino Lacedelli. Il tempo è quasi sempre brutto, ma il lavoro va avanti, e quattro alpinisti raggiungono il camino di Bill House.

Riprendere la salita? Non tutti erano d’accordo

Poi, all’improvviso, la tragedia. “Il 20 giugno, uno dei nostri scese portando la notizia che su, al campo II, Puchoz soffriva di mal di gola, ed era necessaria la presenza di Guido Pagani” scrive Ugo Angelino. “Si sentiva sempre meno bene, noi tutti lo abbiamo consigliato di scendere, ma lui non voleva a nessun costo, diceva che non era niente” racconterà Gino Soldà in una lettera alla moglie. 

Il dottore sale nella bufera, diagnostica una broncopolmonite, il malato dovrebbe scendere ma con quel tempo non può. Una bombola di ossigeno aperta nella tenda dovrebbe dargli sollievo, ma non serve. Nella notte tra il 20 e il 21 giugno Puchoz si spegne, e Guido Pagani parla di una broncopolmonite. Probabilmente, invece, si tratta di un edema polmonare. 

Dopo il funerale inizia una discussione serrata, perché non tutti vogliono ripartire subito verso l’alto. “Lina mia, io non farò imprudenze, perché voglio tornare per te e per i miei cari figlioli. Voi siete tutto per me, noi ci amiamo tanto e siamo felici quando stiamo tutti insieme”, scrive Gino Soldà alla moglie. 

Desio la pensa in modo diverso. Qual era la migliore forma di onoranze alla memoria di Puchoz se non la conquista della vetta per la quale si era immolato? scriverà. A far pendere la bilancia verso la decisione di salire è Achille Compagnoni, che per il capospedizione è “l’uomo più forte e deciso” del gruppo. 

A dare il segnale che la spedizione è ripartita, il 30 giugno, sono Rey e Compagnoni, che superano il camino Bill e installano il campo V poco sopra. Qualche giorno più tardi Floreanini si appende a una vecchia corda che si spezza, e vola per 250 metri fermandosi su un cumulo di neve. Non si fa quasi nulla, ma il secondo incidente mortale è stato evitato per un pelo. 

Il ricordo della “sua” Courmayeur

Dopo la vittoria sul K2 a Courmayeur, tra la Società delle Guide e la parrocchiale di San Pantaleone, una grande statua in bronzo di Mario Puchoz viene installata accanto a quelle di Émile Rey, “le prince des guides”, campione dell’alpinismo sul Monte Bianco negli ultimi decenni dell’Ottocento, e di Joseph Pétigax, capoguida del Duca degli Abruzzi sul Ruwenzori, sul Sant’Elia e sul K2 nel 1909.  

Nei settant’anni che separano il 1954 dai nostri giorni, la lista dei caduti sul K2 si allunga. I resti di alcuni di loro vengono sepolti accanto a Puchoz, o nelle fenditure del macigno che ospita il memoriale di Art Gilkey. Altri restano sulla montagna o vengono deposti nei crepacci, come Renato Casarotto nel 1986, ma sono ricordati anch’essi da targhe e da croci artigianali. 

Per gli alpinisti che sostano uno o due mesi al campo-base, come per i trekker che vi restano solo una notte, la breve salita al memoriale di Gilkey, di Puchoz e di tutti gli altri è un momento fondamentale e commovente. 

La salita, anche se breve, è faticosa a causa della quota e dei sassi. Il colpo d’occhio sul K2 da qui è straordinario. Pochi luoghi, su tutte le montagne del mondo, fanno capire con altrettanta forza a chi passa la piccolezza dell’uomo di fronte ai giganti di roccia e ghiaccio della Terra.       

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