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Celso Gilberti, straordinario alpinista friulano

Il 18 novembre un convegno a Udine ricorda lo scalatore scomparso nel 1933, a 22 anni, dopo aver tracciato grandi vie sulle Alpi Giulie e sulle Dolomiti

Ad un tratto un rumore di sassi precipiti, di terra franante, ombre fulminee fuor della nicchia e proiettate in basso: sintomi delle gravi e irreparabili “volate” dalla roccia. “Sassi!” rilevava Pisoni”. È l’11 giugno del 1933 e così il quotidiano “Il Brennero” documenta l’istante in cui l’alpinista friulano Celso Gilberti perde la vita assieme al compagno di cordata Ernesto Pedrini, sull’ultimo tiro della diretta alla Paganella, via aperta un anno prima da Bruno Detassis con tre compagni.

Celso ha ventidue anni, sta per laurearsi al Politecnico di Milano come ingegnere civile. Assieme a Giusto Gervasutti e Raffaele Carlesso, quasi coetanei, è una delle promesse dell’alpinismo friulano. Si è già distinto, nonostante la giovane età, nell’apertura di quaranta nuove vie in montagna, anche di sesto grado, e in numerose ripetizioni tra le Dolomiti e le Alpi Occidentali. La sua scomparsa è una tragedia per il mondo alpinistico friulano e per il CAI nazionale.

Nato a Rovereto il 28 novembre 1910, Celso è il secondogenito di Ettore Gilberti, architetto udinese di talento trasferitosi per lavoro in Trentino. Tra le Dolomiti trentine comincia a frequentare le cime, anche grazie alla passione per la montagna del padre. A dieci anni sale sulla Torre Winkler, una delle tre del Vajolet, insieme ad altri giovani.

Ma è nella terra paterna, tra le Alpi Giulie e Carniche, che il suo talento fiorisce a partire dal 1922, dopo il rientro in Friuli della famiglia. Le sue capacità nella scalata emergono durante i campeggi estivi organizzati dalla Società Alpina Friulana. Nel 1927 Celso inizia ad aprire nuovi itinerari.

Nell’estate di quell’anno apre due vie nel Gruppo del Popera, una nelle Dolomiti Pesarine e una sulla Sfinge della Creta Grauzaria. Le ultime sono ancora oggi due classiche del terzo grado. Suoi compagni di cordata sono Giovanni Granzotto, Oscar Soravito e l’avvocato Riccardo Spinotti, mentore di tanti giovani scalatori.

È proprio con Spinotti – di cui Dante Spinotti direttore della fotografia e premio Oscar, è pronipote – che il 1° luglio 1928 Celso affronta una grande prova di forza, resistenza, determinazione e carattere in parete. Durante un tentativo di salita alla parete Nord della Cima di Riofreddo nel Gruppo del Jôf Fuart, la cordata viene colpita da un violento temporale e da altri incidenti che portano Spinotti a morire di stenti.

Racconta quella ritirata uno scritto di Emilio Comici, che completa la via un mese dopo con Giordano Bruno Fabjan, e che riconosce la grandezza di Gilberti in una lettera a Severino Casara. “Il vero cavaliere della montagna, veramente il più puro e il più modesto che io abbia conosciuto. Arrampicatore formidabile, fra i migliori e chissà, forse il migliore, di lui non si sapeva mai quello che faceva, non scriveva mai niente, e dopo aver compiuto una salita non diceva mai se era di quinto o di sesto grado, e ne aveva fatte tante!”.

Comici, che aveva raccolto a Valbruna da Julius Kugy i dettagli di quella disavventura, scrive: “…si scatenò un violento temporale che fece trasformare il camino in un letto di torrente impetuoso. Dovettero sostare sotto un masso non solo per non farsi travolgere dall’acqua, ma anche per ripararsi dalle scariche di sassi che precipitavano dalla soprastante Cengia degli Dei”. Cessato il maltempo, sempre sotto l’acqua, uscirono dal camino ed entrarono nel grande vano nero. Ma qui il temporale nuovamente li colse, accompagnato da grandine e nevischio”.

“Calmatasi la bufera, solo verso le ore 18, essi tentarono ancora di proseguire e di raggiungere la Cengia degli Dei, ma, superato un tratto di parete, l’avvocato Spinotti dichiarò di essere nell’assoluta impossibilità di proseguire, mentre Gilberti, più in alto, si affannava alla ricerca della strada e già scorgeva ad un centinaio di metri sopra di lui, l’agognata Cengia degli Dei, cioè la salvezza”.

“Ad un tratto una scarica di sassi si abbattè loro vicina, tagliando nettamente in tre parti la corda che li teneva uniti: gli alpinisti poterono salvarsi per miracolo addossandosi alla parete. Vista l’impossibilità di proseguire, decisero di tentare la discesa, anche di notte, per il timore che il gelo coprisse la roccia di vetrato. Un bivacco nelle pietose condizioni in cui si trovavano, sarebbe stato certamente fatale per entrambi. Così, unirono le corde e incominciarono a calarsi giù per il camino, col sistema della corda doppia”.

“Dopo inenarrabili fatiche e patimenti, giunsero a tarda notte sulla cengia che attraversa la parete ad un terzo dalla base, e qui, esausti di forze, decisero di aspettare il giorno. Alle prime luci ricominciarono la discesa giungendo finalmente al nevaio di attacco… l’immane fatica fu fatale al povero Spinotti che, alla base della parete, si accasciò per mai più risollevarsi.

Gilberti si riprende dalla tragedia, e nel 1930 dedica a Spinotti un torrione nel Gruppo del Cridola (Dolomiti Friulane). Nel settembre del 1928 con Granzotto scala gli 800 metri della parete nord del Jôf di Montasio, l’anno seguente apre un altro itinerario sulla stessa montagna con difficoltà di quarto e quinto grado e con Soravito scala la severa parete Nord del Zuc dal Bôr, nelle Carniche Orientali. Vie con pochissime ripetizioni per i pericoli oggettivi e il terreno infido.

Nel giugno del 1930 Gilberti, che ha iniziato i suoi studi universitari a Milano, è nelle Prealpi Bergamasche con Ettore Castiglioni e altri alpinisti. Ne nasce una profonda amicizia, sportiva e di affinità elettive, documentata a più riprese negli scritti di Castiglioni che descrive Celso come il compagno di cordata ideale.

Le nostre anime vibravano all’unisono” ricorderà Castiglioni dopo aver salito con Celso la parete ovest della Busazza, impresa non riuscita a Rudatis e Videsott. “Solo così, attraverso un’illimitata fiducia reciproca e un fortissimo senso di solidarietà, si costituisce l’affiatamento della cordata, quella fusione delle volontà, quella comunione di intenti e di ideali, che sono la condizione indispensabile per la buona riuscita, in cui la continuità della tensione richiede calma, fermezza e spirito elevatissimo”.

Nel 1931 e nel 1932 i due compiono diverse salite insieme sia su roccia, sia con gli sci e sarà uno shock per Castiglioni la scomparsa dell’amico, a cui dedicherà il Torrione Gilberti nelle Dolomiti di Brenta, scalato assieme a Bruno Detassis.

Tornano insieme nella Presolana e risolvono “l’ultimo grande problema ancora insoluto sul versante nord” assieme a Vitale Bramani, salendo quella parete in sole sette ore e “coronando così il sogno lungamente accarezzato dai migliori scalatori lombardi”. Poi compiono quattro nuove salite nel Gruppo del Cridola e dei Monfalconi e, nel gruppo del Pomagagnon, aprono una variante alla via Jori di Cima Fiames. 

L’anno successivo, sempre insieme, realizzano tra giugno e agosto una preziosa triade sugli appicchi settentrionali del Mangart, tra la Veunza e il Piccolo Mangart di Coritenza, su pareti repulsive, con difficoltà di quinto e sesto grado e con dislivelli tra i 600 e i 900 metri. In agosto, dopo aver scalato la Solleder alla parete Nord Ovest della Civetta, compiono la prima salita alla Busazza, con un bivacco a settanta metri dalla fine.

“(Celso) giudicò la direttissima alla Busazza ancora più faticosa ed aspra della via Solleder per il continuo susseguirsi, nel tratto superiore, di difficoltà estreme, senza punti di sosta” scrive l’industriale e alpinista Giovanni Battista Spezzotti. Nel 1932, come istruttore al corso di alpinismo che si teneva al Rifugio De Gasperi nelle Dolomiti Pesarine, in soli otto giorni apre sette nuove vie per gli allievi.

Ma la salita che mantiene il nome di Celso Gilberti ancora vivo tra gli alpinisti di oggi è lo spigolo Nord del Monte Agner, aperto in undici ore di scalata, senza bivacco, assieme a Oscar Soravito. E’ la più importante scalata dolomitica del 1932.

In quell’anno c’è anche un’ultima realizzazione della cordata Gilberti-Soravito, quella tracciata nel caratteristico camino sulla parete Est del Bila Pec, nel gruppo del Canin (Alpi Giulie), di fronte alla conca che ospita il rifugio a lui intitolato nel 1934, e diventato nel 2002 rifugio Gilberti-Soravito.

Di questa via ha un originale ricordo Roberto Mazzilis, che la ha scalata in solitaria nel 1981, valutandola di settimo grado. “Il camino è larghissimo e perfettamente liscio, non sai a che profondità scalare, ci sono un paio di chiodi appena puntati che sporgono nel vuoto per quasi tutta la loro lunghezza. È un camino bagnato e viscido. Mentre lo salivo ripensavo ridendo alle parole di Ernesto Lomasti che mi aveva detto, a sua volta ridendo: “Se hai qualcuno che ti sta sulle scatole mandalo a ripetere la Gilberti al Bila Pec”.

Di Celso Gilberti ci rimangono un vibrante ritratto fotografico e due significativi ritratti dipinti, postumi, che riprendono quella fotografia. Uno è opera del pittore friulano di montagne Napoleone Pellis che coglie con intensità la sua espressione carica di energia sensibile e quell’integrità morale degna di ammirazione che tutte le fonti ricordano. “Il volto bellissimo rispecchiava la nobile bontà dell’animo. Quegli occhi luminosi, quel sorriso, in cui sembravano fuse l’ingenuità della fanciullezza e la forza delle virilità, avvincevano subito la più calda simpatia”.

Sabato 18 novembre a Udine si terrà il 112° convegno annuale della Società Alpina Friulana, dedicato a Celso Gilberti. Per l’occasione lo studioso Umberto Sello ricorderà la sua figura, mentre la ricercatrice Diana Barillari traccerà un profilo di Ettore Gilberti, il padre architetto. Verrà inaugurata un’area verde intitolata a Celso Gilberti da parte del Comune di Udine. Un altro tassello per continuare a portare avanti il suo nome così “caro agli Dei”.

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