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Tunnel del Monte Bianco: la storia, il successo, la tragedia

Chiude, non chiude. Il traforo tra Courmayeur e Chamonix è in questi giorni al centro delle cronache. Rileggiamo la storia. Tormentata

Il 16 luglio del 1965 il sole splende sul ghiacciaio della Brenva, sul Dente del Gigante e su Entrèves. Ai piedi del Monte Bianco, dove un cantiere ha lavorato per sei anni e mezzo, si celebra un evento che cambia l’Europa. In piedi su una Lancia scoperta, scortata da motociclisti in divisa, due uomini sorridono per telecamere e fotografi.

Il presidente francese Charles de Gaulle ha comandato a partire dal 1940 le forze della Francia libera, poi è stato eletto per due volte al vertice della République. Giuseppe Saragat, presidente della Repubblica italiana, ha militato nel Partito Socialista, è stato un dirigente della Resistenza e ha presieduto l’Assemblea Costituente. Accanto ai due presidenti il pubblico celebra gli eroi del ciclismo, che si sfidano nel Giro e nel Tour. “Vive Saragat! Vive Poulidor! Vive De Gaulle! Vive Gimondi!”, recita un cartello.

“Verrà un giorno che sotto al Monte Bianco si scaverà una strada carrozzabile, e le due vallate di Chamonix e di Aosta, saranno unite”. La profezia, della fine del Settecento, è di Horace-Bénédict de Saussure, il naturalista svizzero che promuove la prima salita alla cima.

L’idea visionaria di Dino Lora Totino

Il padre del Traforo è un ingegnere capace di costruire in montagna delle opere che nessuno ha mai ancora tentato. Si chiama Secondino (Dino) Lora Totino, è un piemontese di Pray, presso Biella. Nel 1936 realizza la funivia che sale dalla conca del Breuil, dove sta sorgendo Cervinia, a Plan Maison. Tre anni dopo prolunga l’impianto fino ai 3480 metri del Plateau Rosà.

Il primo progetto per un tunnel sotto al Monte Bianco risale al 1908, quando l’ingegnere francese Arnold Monod disegna una galleria ferroviaria. Il traforo del Fréjus è stato inaugurato nel 1871, quello del Sempione nel 1906. Il progetto di forare il Monte Bianco, invece, cade nel dimenticatoio. Nel 1934 Monod lo ripropone, pensando di far passare auto e camion con un progetto che prevedeva la doppia canna. Ma i rapporti tra l’Italia e la Francia peggiorano, e non se ne fa nulla.

Lora Totino si mette all’opera nel 1946. Inizia a scavare a sue spese un tunnel sul versante italiano, poi ottiene 20 ettari di terreno dal Comune di Chamonix e fa partire i lavori anche lì. Le autorità bloccano i lavori, ma ormai l’idea ha preso piede, e i due governi se ne appropriano. L’accordo italo-francese sul Traforo arriva nel 1949, la convenzione per la realizzazione e la gestione dell’opera viene firmata nel 1953.

Sei anni di lavori per completare l’opera

I lavori iniziano nel gennaio del 1959 sul versante italiano, e sei mesi dopo su quello francese. Il progetto di Lora Totino e Zignoli prevede un’unica galleria di 11,600 metri dei quali  7.640  in Francia e 3.960 in territorio italiano.

Il Traforo scende verso i due imbocchi per facilitare il deflusso dell’acqua. Il “valico” al centro è a 1395 metri di quota. I lavori durano sei anni e mezzo e richiedono l’uso di 711 tonnellate di dinamite. Vene d’acqua sotterranee investono più volte operai e macchinari. Sul versante italiano due valanghe travolgono il cantiere e uccidono tre lavoratori.

Nell’agosto del 1962 cade l’ultimo diaframma. I lavori sono stati eseguiti perfettamente, lo scarto tra i due tunnel è di 13 centimetri. Le cronache raccontano che, prima delle strette di mano e degli abbracci, passano dalla Francia all’Italia quattro bottiglie di champagne. “Pensavano di fare un buco, fecero l’Europa” commenterà cinquant’anni dopo Maurizio Crosetti su La Repubblica.

L’apertura del Traforo ha un enorme impatto sulle valli che lo raggiungono e sull’Europa. La sua posizione, sull’itinerario più breve tra Parigi e Ginevra da un lato e Milano e Roma dall’altro, fa sì che fin dai primi giorni il traffico sia superiore al previsto. Tra il 1965 e il 2015, nonostante i tre anni di chiusura dopo l’incendio del 1999, vi transitano 70 milioni di veicoli, con punte di 5.000 al giorno.

Il Traforo trasforma le valli dell’Arve e della Dora Baltea. I francesi lo collegano subito alla rete autostradale, sul versante italiano, per decenni, l’autostrada che proviene da Torino e Milano termina a valle di Aosta. Sulla circonvallazione del capoluogo, e sulla statale si formano lunghe code di TIR e di auto, i centri della Valdigne soffrono per l’inquinamento e il traffico. Risolve in parte il problema la prosecuzione della A5 fino a Courmayeur (2001) e ad Entrèves (2007).

La tragedia del 1999

Nel 1999, però, nelle viscere del Monte Bianco avviene un cataclisma che emoziona l’Europa. A causarlo è anche una sorveglianza sempre più blanda. Chi percorre spesso il Traforo si accorge che il limite di velocità, e l’obbligo di mantenere una distanza di 100 metri non vengono sempre fatti rispettare. La mattina del 24 marzo 1999 il camionista belga Gilbert Degrave imbocca il tunnel dal versante francese, alla guida di un TIR carico di farina e margarina. Secondo i testimoni e i video, quando entra sta già emettendo del fumo. Altri autisti lo vedono e lampeggiano con i fari.

Nell’inchiesta Degrave, che riesce a salvarsi, dichiarerà di aver visto del fumo nello specchietto, e di aver tentato di raggiungere l’uscita. Non ce la fa. Alle 10.48, al centro del tunnel, il TIR viene avvolto dalle fiamme e si blocca. Le sale di controllo non bloccano subito il traffico, così auto e TIR continuano a entrare e ad ammassarsi. I primi soccorritori arrivano in 12 minuti, e tentano di evacuare i vivi. Ma il calore sprigionato dall’incendio dà fuoco a decine di veicoli, e i serbatoi che esplodono contribuiscono ad alimentare l’inferno.

A trasformare l’incidente in una strage è la schiuma di poliuretano usata per l’isolamento termico del TIR belga. Prende fuoco e si trasforma in acido di cianuro, un gas tossico che uccide chi lo respira. Automobilisti e camionisti che raggiungono i rifugi riescono a scampare al cianuro, ma vengono uccisi dalla temperatura che raggiunge i 1.000 gradi.

Un’ora dopo l’incidente Stefano Sergi, della redazione di Aosta de La Stampa, raggiunge l’imbocco italiano, e incontra “gruppetti di vigili del fuoco con i respiratori che entrano ed escono, lo sguardo allucinato”. Il tunnel è “un’immensa canna fumaria, che sputa e sputerà una colonna di fumo nerissimo per giorni e notti e altri giorni e altre notti”.

Per spegnere l’incendio occorrono 53 ore, le vittime della catastrofe sono 39, di otto Paesi europei. Alcune bare sono vuote, perché il calore ha sciolto i corpi. Un anno dopo, quando il primo gruppo di giornalisti entra nel tunnel, la presenza di gas tossici costringe a indossare le maschere. “Sui muri dei rifugi erano ancora visibili i segni agghiaccianti delle vittime, come quelle delle fotografie di Hiroshima” conclude Sergi.

L’incendio e la strage fanno chiudere il Traforo per tre anni. “La catastrofe poteva essere evitata”, scrivono i giudici del tribunale di Bonneville, nella sentenza che condanna a pene tra i 24 e i 36 mesi di carcere i responsabili della sicurezza dei due versanti.

Il “nuovo” Traforo ha una volta rifatta ed è attrezzato con nicchie antincendio. A metà vigila una squadra di Vigili del Fuoco, sotto alla carreggiata viene aperta una galleria d’evacuazione. Viene creata una sola centrale di controllo, è vietata la circolazione ai mezzi che trasportano materiali pericolosi e ai veicoli inquinanti.

Telecamere e radar controllano la velocità (la massima è di 70 chilometri all’ora) e la distanza di sicurezza. A chi sgarra si dovrebbero applicare regole severe. Non a tutti, però. Il 16 aprile 2004, come racconta il quotidiano Le Dauphiné Liberé, la polizia ferma a notte fonda un’auto che viaggia a 214 chilometri all’ora.
La presenza alla guida di un diplomatico del Qatar impedisce qualunque provvedimento e l’emulo arabo di Senna e Schumacher riparte tranquillamente. Per rendere perfettamente sicuro il Traforo c’è ancora qualcosa da fare.

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