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Terremoto in Marocco: è ipotizzabile un aiuto da parte del popolo della montagna?

Alpinisti, trekker e skialper ben conoscono il Toubkal e i gruppi montuosi tutt’intorno. Bello immaginare, al momento della ricostruzione, un intervento da parte di chi la montagna la ama e la conosce

La vetta rocciosa del Toubkal, 4167 metri di quota, affiancata da quelle del M’Goun e dell’Ayachi. Più a sud il Jebel Sirwa, 3304 un antico vulcano affacciato sull’immensità del Sahara. Poi il villaggio di Imlil con le sue case di terra battuta e di pietra, la cittadina di Asni ai piedi dei primi pendii dell’Atlante. L’altopiano dell’Oukaïmeden con le sue piste da sci a un’ora di viaggio dalla meravigliosa Marrakech.

Ancora le strade tortuose e pittoresche del Tizi-n-Test e del Tizi-n-Tichka, i due valichi oltre i 2000 metri di quota che generazioni di viaggiatori europei hanno scavalcato per spostarsi in direzione di Taroudannt e della costa di Agadir, oppure di Ouarzazate e del Sahara. La cittadella di Aït-Benhaddou, con le sue torri e le sue mura fotografate da centinaia di migliaia di turisti, e che sono comparse in decine e decine di film.

Il terremoto che alle 23.11 di venerdì 8 settembre ha sconvolto il Sud-ovest del Marocco ha ucciso migliaia di persone, pesantemente colpito Marrakech, una delle città più belle e ricche di storia del mondo arabo e messo in ginocchio decine di villaggi e cittadine. Le strade di montagna interrotte, e qua e là completamente franate, complicano non poco i soccorsi.

Basta uno sguardo ai giornali per leggere racconti terribili.  “Sono il sindaco di un comune che non c’è più e sono qui a scavare con le mani e con ogni mezzo, nella speranza di trovare vivo qualcuno. Tutti i villaggi che ho visto sono ridotti a cumuli di macerie” ha raccontato all’agenzia italiana ANSA Abdelrahim Aid Douar, sindaco di Tata n’Yaacoub, la cittadina nell’epicentro del terremoto.

“Due giorni dopo il cataclisma, i villaggi dell’Alto Atlante continuano a contare i dispersi” scrive Kacem Ou’brahim, inviato del quotidiano francese Libération. “Guardatevi intorno! In tutti i villaggi che vedete si piangono amici e parenti. Due giorni dopo le scosse più forti, i primi soccorsi non sono arrivati fin qui” racconta Mouh, pastore e padre di tre figli, al giornalista arrivato da Parigi. Tutti i membri della sua famiglia, grazie a Dio, sono sopravvissuti con qualche graffio.

Quelle testimonianze che spezzano il cuore

Matteo Pinci, inviato di Repubblica, racconta storie agghiaccianti da Moulay Brahim, dove le donne non sposate non trovano un posto in tenda per la notte, e “un mulo su cui è stata costruita una lettiga con legno e cuscini è quanto di più simile a un mezzo di soccorso per gli abitanti di Ait Othmane”.”È la nostra ambulanza” dicono i sopravvissuti a Pinci. “Tanto, persone ferite non ce ne sono. Chi era lì sotto è già morto”.

Poi l’inviato del quotidiano romano riesce a salire fino ai 1700 metri di Imlil, e trova “l’unico angolo di Marocco in cui l’inferno non è arrivato”. Non ci sono morti, l’acqua da bere è abbondante, bar e ristoranti hanno tavolini colorati all’aperto, si può acquistare del cibo. Riporta alla tragedia un furgone che scende all’imbrunire verso la pianura e Marrakech e al cui interno “un tappeto avvolge dignitosamente una delle duemila persone che la scossa ha ucciso”.

“Ho iniziato a cercare i miei amici sull’Atlante poche ore dopo il sisma. Quando ci sono riuscito ho capito che i danni del terremoto sono stati molto più forti in pianura che in montagna” spiega Angelo Bellobono, pittore e maestro di sci romano che lavora tra la Valle d’Aosta e l’Abruzzo. “Tra il 2011 e il 2018 mi sono impegnato per la gente delle montagne del Marocco, con il mio progetto Atlasnow ho formato maestri di sci e guide per escursioni e scialpinismo, ho collaborato con l’ESAF, la scuola superiore di cinema e grafica di Marrakech” prosegue Bellobono.

“I telefoni cellulari tacciono, anche Internet funziona solo a tratti, ma ho scoperto con gioia che stanno bene Mohammed Aziz di Imlil e i miei tanti amici di Asni. Sta bene anche Id Ali Brahim, che è venuto a sciare insieme a me tra Ovindoli, Campo Felice e il Gran Sasso”.

Notizie contraddittorie arrivano da Mike McHugo, proprietario della Kasbah du Toubkal, un bell’albergo che sorveglia dall’alto Imlil e il sentiero che sale in direzione del Toubkal. “La strada è chiusa l’albergo ha subito gravi danni, non abbiamo elettricità o telecomunicazioni, ma sia il personale sia gli ospiti stanno bene” scrive Mike sabato 9 settembre sulla pagina Facebook dell’albergo.

L’indomani, l’imprenditore britannico spiega ai suoi follower come aiutare attraverso due raccolte di fondi. La prima è gestita dalla British Moroccan Society, la seconda è legata a Education For All, un progetto lanciato da McHugo che ha aperto delle residenze per le ragazze dell’Alto Atlante che volevano frequentare le scuole superiori. “Molti dei nostri edifici sono in rovina, abbiamo bisogno d’aiuto!” conclude Mike.

L’orgoglio di Re Mohammed VI, ma la montagna deve unire una volta di più

Nel momento in cui scrivo, il governo del Marocco continua a permettere l’accesso nel Paese solo ai mezzi e al personale di soccorso proveniente da Spagna, Regno Unito, Tunisia e Qatar. Francia, Italia e decine di altri Paesi hanno aerei pronti a decollare con a bordo soccorritori, cani da valanga, medici, infermieri e molto altro, ma il benestare di re Mohammed VI e del governo di Rabat non c’è ancora. Questione di orgoglio nazionale.

E’ un peccato, ma non ha senso contribuire alla polemica. L’Alto Atlante marocchino, insieme ai massicci che gli si affiancano a sud e a nord, è una zona di montagna favolosa, è accessibile con una spesa contenuta a camminatori, scialpinisti e climber europei, ha visto nascere negli anni grazie alle ONG, all’Unione Europea e a decine di altri progetti una rete di agenzie, di strutture ricettive e di guide capaci di lavorare molto bene. L’ecoturismo, ai piedi del Toubkal, aveva iniziato a funzionare bene.

Quando finiranno i giorni del primo soccorso, sarebbe bello se il mondo della montagna italiano, incluso il CAI, riuscisse a intervenire con uno o più progetti mirati, organizzando trekking e uscite di scialpinismo o ricostruendo qualche infrastruttura sull’Atlante.

“La montagna unisce” è stato scritto molte volte, e il terremoto che ha devastato il Marocco non è diverso da quelli che hanno colpito nel 2009 L’Aquila, nel 2015 il Nepal e nel 2016 Amatrice e i Monti Sibillini. Angelo Bellobono e i suoi amici, qualche anno fa, hanno portato in Abruzzo delle pietre dell’Atlante, e delle rocce del Gran Sasso sul Toubkal. Ci piacerebbe che questo gemellaggio di pietra diventasse un gemellaggio solidale. E concreto.

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