Alpinismo

A tu per tu con Simon Messner al ritorno dalla riuscita ascensione sullo Yernamandu Kangri (7180 m) nel Karakorum in Pakistan

Insieme allo storico compagno Martin Sieberer lo scalatore altoatesino ha conquistato in stile alpino l’inviolata vetta del Karakorum a 7.180 metri di quota. Ecco il suo racconto.

Chiamarsi Messner non è facile. Simon si porta sulle spalle una pesante eredità (e tante aspettative legate proprio al suo importante cognome), che non gli ha tuttavia impedito di trovare una sua identità alpinistica. Uno stile, un “credo” da perseguire e un modo di intendere la montagna che ci ha raccontato nell’intervista rilasciata in esclusiva a montagna.tv al rientro della spedizione nel Karakorum che lo ha portato, insieme a Martin Sieberer, sulla vetta dello Yernamandu Kangri (7.180 m) nel Karakorum meridionale poco distante dal più noto Masherbrum (7.821 m). Una zona aspra e selvaggia, raggiungibile in due giorni di cammino dal villaggio di Hushe (3.000 metri).
Si apprende dalla voce dello stesso Simon che la montagna era stata tentata una sola volta (o forse due!). Il primo tentativo risale al 1982, ma purtroppo non vi è nessuna testimonianza scritta. Pare che l’assalto fosse fallito intorno ai 6.600 metri a causa del terreno complesso e della troppa neve in parete. Nulla si sa invece, se non voci non confermate, del secondo. Lo Yernamandu Kangri era nei sogni dei due già da qualche anno, che aspettavano il momento giusto per tentare la salita. Il permesso delle autorità pakistane è arrivato solamente a tre settimane dalla partenza e quindi Simon e Martin hanno dovuto organizzare la spedizione senza perdere troppo tempo. Per entrambi questa è stata la prima volta a quota 7.000 metri.

La salita

Il meteo instabile e le brevissime finestre di bel tempo hanno imposto un acclimatamento limitato e una salita rapida (circa 1000 metri al giorno).  Partiti dal campo base a 4.300 metri il 13 luglio sono saliti fino a 5.400 metri, dove hanno posizionato il primo bivacco. Il giorno successivo sono saliti a 6.250 metri, quindi il 15 luglio hanno attaccato direttamente la vetta, raggiunta alle 11.15 del mattino dopo 7 ore di ascesa.
La parete terminale della montagna è alta 600 metri e ha una pendenza di circa 70°, a tratti ghiacciata. “Come una delle nostre pareti nord”, racconta Messner, “che però si trova tra 6.500 e 7.100 metri di quota. Salire era molto faticoso, anche perché il ghiaccio si è rivelato molto duro. Anche la discesa non è stata banale. Avevamo deciso di non portare la corda per risparmiare sul peso, di conseguenza l’attenzione doveva essere ancora più alta. Scendere quella parete senza corda e stanchi come eravamo era quasi troppo per noi. A volte, durante le pause, rischiavamo di addormentarci, non certo una buona idea  vista la pendenza. Abbiamo dovuto sforzarci di rimanere concentrati fino alla fine. Sarà una giornata che certamente non scorderemo”.

Come giudichi questa salita e quali sono le maggiori difficoltà?

Non è troppo difficile anche se tra seracchi incombenti, crepacci e rischio di valanghe i rischi oggettivi non mancano. La parete finale è certamente la parte più tecnica. Scalare senza fare cordata ci ha imposto un’attenzione ancora maggiore, in quanto ogni errore poteva costarci la vita. Fortunatamente io e Martin siamo una coppia ben collaudata, scaliamo insieme da moltissimo tempo, conosciamo le nostre capacità e abbiamo la stessa visione della montagna e dell’alpinismo. Cosa fondamentale per due scalatori che affrontano una spedizione insieme.

Come è stato l’avvicinamento. Vi siete fatti supportare per trasportare i materiali o eravate completamente soli?

A Hushe abbiamo incontrato Rozi Ali, cuoco e portatore che conosco bene perché già altre volte aveva preso parte alle spedizioni di Reinhold (Messner, il padre, n.d.r.). È stato bello ritrovarsi e essere proprio lì dove lui vive. Molto esperto della zona, insieme siamo andati fino a quello che abbiamo deciso essere il nostro campo base. Anche l’avvicinamento alla montagna è stato un’avventura nell’avventura: non sapevamo bene dove passare e, poi, dove posizionare le tende. Alla fine abbiamo trovato una zona a ridosso di una collinetta. Non era sicurissima perché era molto vicina a una parete che scaricava sassi ma era davvero l’unico luogo possibile. In più di una occasione le pietre sono arrivate a 10 metri dalla tenda. Ci è andata bene.

Salire senza corda non è un azzardo? 

Conosco il mio compagno di cordata e so che è tecnicamente in grado di affrontare autonomamente gli stessi gradi e le stesse difficoltà che padroneggio io. Non ha bisogno di un capocordata, come non ne ho bisogno io. Semplicemente abbiamo condiviso la salita. È stata una scelta precisa. Significa essere responsabili di sé stessi e delle proprie azioni, e anche essere mentalmente pronti al peggio. Il nostro è un alpinismo tradizionale, lontano dal “turismo d’alta quota” che sembra andare tanto di moda.

Quindi se ti dovessero chiedere cosa preferisci tra un 7.000 metri inviolato e una nuova via su un 8.000?

Certamente il 7.000 inviolato, anche se avrà molta meno risonanza mediatica. Se la situazione sugli 8.000 rimane quella che è ora, con spedizioni commerciali e lunghe code per raggiungere la vetta, temo che il rischio sia quello di non provare mai un 8.000. Desidero rimanere lontano da questi ambienti e le mie attuali scelte di vita sono coerenti con questo modo di pensare. L’alpinismo è per me una passione e non una professione. Di conseguenza non sono “costretto” a fare un tot di salite all’anno e non ho la pressione di dover raggiungere per forza la cima.

Lo Yermanendu Kangri si trova non troppo distante dal K2. La zona in cui si trova è tuttavia molto meno frequentata. Per quale ragione?

Credo che il motivo sia molto semplice: perché le montagne non sono alte 8.000 metri! Ci sono “solo” moltissimi 6.000 e qualche 7.000. Le spedizioni, commerciali e non, vogliono poter dire di aver scalato una delle 14 più alte del pianeta. Credo che la ragione sia solo quella. E non si nominano quasi mai gli sherpa, che sono i più grandi alpinisti in assoluto su queste montagne e che spesso sono decisivi per la buona riuscita dell’ascensione. Questa è una differenza grandissima, dal punto di vista alpinistico, eppure spesso la cosa non viene detta. Io e Martin abbiamo a cuore l’alpinismo classico, quello in cui lo scalatore, per aver davvero “conquistato” la vetta deve averlo fatto autonomamente, aprendo o attrezzandosi la via. Tutto il resto, dal mio punto di vista, non si può chiamare alpinismo. Si tratta di prove sportive, di grandi prestazioni, ma non alpinismo.

Spesso questi luoghi richiedono grandi spostamenti, il che cozza un po’ con quel concetto di sostenibilità che ti sta tanto a cuore. Come trovi il giusto compromesso?

L’argomento in sé è complesso. Faccio parte dei “Salewa People”, un gruppo di persone selezionate dal mio sponsor perché fortemente legate all’ambiente della montagna e con una forte sensibilità e propensione al rispetto oltre che alla valorizzazione di essa. Compromesso è la  parola giusta. Dobbiamo trovare dei modi per far pesare meno il nostro impatto sull’ambiente. Se voglio scalare una montagna come quella appena salita, è indubbio, devo viaggiare e per farlo ho bisogno dell’aereo. Lo stesso, se voglio andare in Dolomiti, devo fare due ore in auto. È impossibile evitarlo. Io lavoro, ho un maso che mi impegna quotidianamente, non ho moltissimo tempo. Però mi sono messo alcuni punti fermi: andare in spedizione una volta ogni due anni, allenarmi partendo a piedi da casa (ho la fortuna di vivere in un bel posto, che mi permette anche di scalare senza dovermi spostare) e, se proprio voglio andare in Dolomiti, sfruttare il viaggio per stare via almeno tre giorni alla volta.

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Un commento

  1. Buon sangue non mente!
    L’unica nota che eventualmente si potrebbe rilevare riguarda il suo punto di vista sugli 8000. E’ condivisibile solo in parte perchè, tolte le vie normali, ci sono versanti di queste montagne dove non trovi nessuno anche al campo base e puoi praticare l’alpinismo che preferisci; per cui, escluderli a priori, mi sembra assurdo e un pò elitario come atteggiamento.

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