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La ferrata Brizio del Gran Sasso cambia nome. Era ora!

La ferrata del Gran Sasso, dedicata al presidente del CAI Guido Brizio coinvolto nell'epurazione degli ebrei durante il periodo fascista, finalmente cambia nome

La giustizia degli esseri umani è lenta, ma a volte riesce a fare il suo corso. Ottantacinque anni dopo i fatti, il presidente della Sezione di Roma del CAI, Guido Brizio, che tra il 1938 e il 1939 aveva firmato l’epurazione dei soci ebrei (“non ariani”, nell’orribile linguaggio del tempo) non sarà più celebrato dal nome di una via ferrata del Gran Sasso.

A prendere la decisione, qualche giorno fa, è stata la Sezione di Teramo del CAI, proprietaria da quasi vent’anni della ferrata, che collega la Sella del Brecciaio, e quindi l’albergo di Campo Imperatore, con la Sella dei Due Corni e le pareti del Corno Piccolo.

È stata una decisione unanime, ne siamo orgogliosi. Ora ci serve un po’ di tempo per confrontarci con le altre Sezioni, con il CAI regionale, con il Comune di Pietracamela e con il Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga”, spiega Luigi Pomponi, presidente della Sezione di Teramo.

Il nuovo nome della ferrata Brizio

Il nuovo nome della ferrata Brizio sarà quasi certamente Ferrata dei Ginepri, dal nome del selvaggio vallone sul quale l’itinerario attrezzato si affaccia. Sembrano accantonate le altre proposte: Ferrata Ajò-Jannetta (il cognome di una socia “epurata” e quello di suo marito, noto alpinista), Ferrata della Memoria e Ferrata dei due Corni.

La decisione era nell’aria da un anno e mezzo, da quando l’amico e collega Lorenzo Grassi ha reso noto un impressionante rapporto sui provvedimenti che l’allora Sezione dell’Urbe del Centro Alpinistico Italiano aveva preso per uniformarsi alle leggi razziali fasciste.

Sono seguiti articoli sulla stampa e sul web (molti a mia firma, e chi legge queste righe probabilmente lo sa), il lavoro del gruppo di lavoro del CAI nazionale, composto da Milena Manzi, Fabrizio Russo, Angelo Soravia, e quello altrettanto prezioso della socia Livia Steve a Roma, e dello storico Stefano Morosini nell’archivio centrale del CAI a Milano.

Il momento più emozionante, lo scorso 25 gennaio, è stato l’incontro del CAI nazionale e della Sezione di Roma con la Comunità Ebraica. Dopo le scuse, doverose anche se in ritardo, il presidente generale del CAI Antonio Montani ha consegnato 30 “tessere alla memoria” ai discendenti dei soci cacciati. “Sono un architetto, per me Bruno Zevi è un maestro, non avrei mai immaginato di dovermi scusare con la sua famiglia”, ha commentato.

Quel giorno Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ha chiesto al Club Alpino Italiano di cambiare nome alle strutture intitolate “a chi ha obbedito agli ordini del regime, e non ha saputo dire no”, e quindi anche alla ferrata del Gran Sasso.

L’importanza di fare giustizia storica

Ma ha senso, ottantacinque anni dopo, tornare su una questione come questa? La risposta è sì, anche perché “tornare” non è il verbo giusto. Certo, in quegli anni il CAI, con la parola “Centro” al posto di quella inglese “Club”, era un organo del regime fascista come decine di altre organizzazioni. Ancora oggi, però, impressiona la foga con cui i suoi dirigenti di allora si sono messi al lavoro.

Il 5 dicembre 1938 la sede centrale ha inviato alle sezioni una “circolare riservatissima” che prescriveva “l’epurazione dei soci di razza non ariana”. Poco dopo sono stati cacciati alpinisti famosi come Ugo Ottolenghi di Vallepiana, ufficiale degli alpini nella Grande Guerra. I rifugi dedicati a “non ariani” come il Levi, il Sonnino e il Luzzati sono stati rapidamente ribattezzati.

A Roma, insieme ad altre decine di soci, è stata “epurata” Agnese Ajò, appassionata sciatrice e moglie dell’alpinista Enrico Jannetta, e a firmare l’epurazione è stato il presidente sezionale Guido Brizio. Nel 1945, quando l’Italia è ridiventata democratica, la nuova dirigenza del CAI non ha pensato a reintegrare con le scuse i soci ebrei. Molti di loro, nel frattempo, erano stati vittime delle persecuzioni naziste.

La ferrata del Gran Sasso, ideata prima della Seconda Guerra Mondiale dalle Sezioni di Roma e dell’Aquila del CAI, è stata costruita nel dopoguerra, quando Guido Brizio non era più presidente sezionale, ma gli è stata comunque dedicata. Tra il 2016 e il 2017, dopo anni di abbandono a causa delle pessime condizioni di corde e scale, Brizio è stata ripristinata dal Parco, ed è diventata un itinerario classico.

Un anno e mezzo fa, nelle conclusioni del rapporto L’epurazione dei soci ebrei dalla Sezione dell’Urbe del Centro Alpinistico Italiano, Lorenzo Grassi aveva proposto il nome Ferrata Agnese Ajò-Enrico Jannetta. “Occorre evitare la contrapposizione tra nomi”, ha risposto la presidente Di Segni, accantonando di fatto quell’ipotesi.

Dopo il suo intervento, nell’incontro romano del 25 gennaio, ho preso la parola per proporre Ferrata della Memoria. Una proposta scartata qualche giorno fa dalla Sezione CAI dell’Aquila, che ha ricordato che un itinerario con quel nome esiste già sulle Dolomiti, nei pressi della diga del Vajont. Nelle prossime settimane, dopo il confronto auspicato dal presidente Pomponi, il cambio del nome della ferrata Brizio diventerà definitivo, e sarà celebrato da una manifestazione al Gran Sasso.

Nell’attesa di questi sviluppi, vale la pena ricordare due cose. La prima è l’atteggiamento del Club 2000m, che ha un buon seguito tra i frequentatori dell’Appennino. Un anno e mezzo fa, dopo la pubblicazione dei miei articoli e del rapporto di Grassi, il coordinatore ha pubblicato sulla seguitissima pagina Facebook del Club 2000m un articolo a difesa di Guido Brizio, definito “un Aiace tra i dardi”. Poi, quando l’idea del cambiamento di nome è stata accettata da tutti, l’articolo è misteriosamente scomparso, senza una riga di spiegazione. Un atteggiamento puerile, che non fa onore ai “collezionisti di 2000” e al loro Club.

È stato ancora più sorprendente l’annuncio, arrivato domenica 21 maggio davanti all’Assemblea dei Delegati del CAI riunita a Biella, che nell’elenco dei soci onorari compariva ancora Benito Mussolini, che aveva ottenuto quel titolo nel 1926. Il duce dell’Italia fascista è stato prontamente espulso.

È un atto di coerenza, non so perché nel 2023 quel nome fosse ancora lì. I principi fondanti del Club Alpino Italiano sono incompatibili con ogni forma di regime totalitario”, ha commentato il presidente Montani. La morale? Cercare negli archivi è noioso, e rischia di far impolverare i vestiti. Ma va fatto, perché permette di fare giustizia e può regalare delle sorprese.

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Un commento

  1. chissa quando si chiedera’ scusa ai medici sospesi e espulsi per aver messo in dubbio la sicurezza di certe sostanze sperimentali

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