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Omar Di Felice in partenza per il Ladakh nel cuore dell’inverno

Un'avventura che nasce dopo mesi di profonda solitudine e riflessione

A due mesi dal rientro anticipato dall’Antartide, Omar Di Felice è pronto a partire per una nuova avventura estrema invernale, destinazione Ladakh. Ripartenza, questo il termine più corretto da utilizzare per descrivere il viaggio alla volta del “Piccolo Tibet dell’India” che l’ultracyclist romano si appresta a cominciare, dopo mesi di profonda solitudine e riflessione, una “fase di decompressione totale”, come ci ha raccontato in fase di preparazione degli ultimi bagagli.

Omar spiegaci un po’ da dove nasce questa idea improvvisa di partire per il Ladakh.

Il Ladakh era una meta che avevo già in mente, conservata nel mio cassetto ideale di luoghi da attraversare in inverno. Si tratta di una delle regioni himalayane tra le più fredde e estreme da affrontare nella stagione invernale e inoltre per me ha un forte valore simbolico. Come ripartenza dall’Antartide ho scelto infatti un luogo che è molto vittima anche dal punto di vista umano. Una regione che in inverno si spopola, quei pochi villaggi che ci sono rimangono quasi disabitati quando le temperature scendono abbondantemente sotto i -20°C/-30°C e gli abitanti si spostano verso sud, quindi è un posto in cui poter ritrovare il contatto con se stessi. Un altopiano a oltre 4000 metri incastonato tra le montagne dell’Himalaya dove quel poco di umanità che incontrerò sarà certamente speciale.

Possiamo chiederti quali altre idee avevi valutato come alternative al Ladakh?

Ho cercato di spaziare dal Sud America fino ad arrivare all’Asia, quindi in mezzo c’è un po’ di tutto. Volevo però un’avventura con una connotazione fortemente montana, perché da sempre amo il ciclismo in salita e da sempre le traversate in montagna sono quelle che mi hanno caratterizzato e ispirato maggiormente, come l’attraversamento delle Alpi subito dopo il Covid o l’arrivo al campo base dell’Everest.

Quando hai iniziato a progettare questa nuova avventura?

È un’avventura organizzata molto velocemente anche perché dopo il rientro dall’Antartide mi sono preso un periodo di decompressione totale. In piena sincerità, ho iniziato a pensare al Ladakh meno di un mese fa, ho cominciato a lavorare ai dettagli qualche settimana fa. È un’avventura che non vorrei definire improvvisata, ma che sicuramente nasce sull’onda dell’istinto, di una intuizione, e che sto cercando di concretizzare in tempi molto brevi. Per questo, per me, sarà una esplorazione. Non mi sono dato particolari obiettivi o fissato particolari paletti. Ho un tracciato di massima che vorrei seguire ma sono pronto ad apportare modifiche, ad aggiungere o togliere, in funzione delle condizioni che troverò lì.

È stato complesso riuscire in così poco tempo a recuperare i permessi necessari?

Se ci sono riuscito è grazie alla collaborazione con Viaggi Avventure nel Mondo e alla rete di corrispondenti di cui l’agenzia dispone, che consente di ottenere permessi nella maniera più veloce possibile.

Ci descrivi quello che hai definito “tracciato di massima”?

La traccia originale prevede 1200 chilometri e oltre 25 mila metri di dislivello ma come dicevo, potrebbe essere soggetta a modifiche. Partirò da Manali, che è il primo paesino prima della valle dello Zanskar, dove poi si entra in Ladakh. Affronterò una serie di passi, tra cui in primis lo Shinku La (5031 m), entrerò nell’altopiano del Ladakh e da lì attraverserò due villaggi principali: uno è Padum, dove c’è anche una scuola di bambini con cui ho dei contatti, che vorrei andare a trovare, e l’altro è Kargil. Tra questi due villaggi ci sono altri passi tra 4000 e 5000 metri. Da Kargil andrò verso Leh, il capoluogo del Ladakh e da lì tenterò l’attacco al Khardung La (5359 m), una salita oltre 5300 metri che gli indiani si vendono come il passo carrozzabile più alto del mondo, in realtà è tra i più alti. Una salita dalle condizioni molto particolari perché ti ritrovi in bici a dover superare quota 5300 metri, e in bici, rispetto che a piedi, si sale in quota molto più velocemente, quindi dovrò fare soprattutto la prima settimana una buona fase di acclimatamento.

Come verrà svolta tale fase?

Alcune tappe saranno brevi per portarmi a una determinata quota, altre giornate magari invece salirò a una certa quota per poi tornare a dormire un po’ più in basso, un po’ come si fa nell’alpinismo, sull’esempio di quel che ho fatto durante la traversata himalayana in Nepal.

Hai idea di che condizioni di innevamento ti troverai ad affrontare?

Tra gli ultimi messaggi ricevuti dai corrispondenti di Viaggi Avventure nel Mondo, uno in particolare mi ha fatto sorridere, in cui si diceva che “le divinità sono state gentili con il Ladakh quest’anno e ci stanno mandando tanta neve”. Mi ha fatto sorridere perché quella che è una buona notizia per la regione, tanta neve in inverno che vuol dire disporre di risorse idriche maggiori in estate e uno stato di salute migliore per i ghiacciai, per me significa tanta fatica che mi ritroverò a fare. Ma va bene così. Le strade non vengono mantenute come ce le possiamo immaginare, qualche via di collegamento maggiore verso Leh magari è sottoposta a una manutenzione maggiore ma per quanto riguarda le altre, non è escluso che trovi slavine che impediscano il passaggio. Una volta che arriverò lì mi renderò conto effettivamente delle condizioni e capirò come affrontare i vari valichi e salite. In alcuni punti sicuramente mi ritroverò, come già capitato nelle ultime avventure, a dover spingere la bici, ma sono abbastanza preparato all’evenienza.

Parti con una mountain bike o una fat bike?

Partirò con una mountain bike perché dovrei trovare delle strade più o meno percorribili in MTB. Sarà equipaggiata con tutto il necessario per affrontare l’avventura, dunque borse da backpacking, una tenda monoposto e un sacco a pelo d’alta quota. Questo perché, a differenza dell’Antartide, dovrei avere la possibilità in alcuni casi di dormire in luoghi al chiuso nei villaggi o nei monasteri tibetani sparsi qui e là lungo il percorso. È tutto un grande punto interrogativo perché è una regione che in inverno, come dicevamo, si spopola, quindi non so esattamente cosa troverò. Ma anche questo è il bello dell’avventura, sono pronto anche a campeggiare all’aperto.

In caso di emergenza come ci si comporta?

Questo è un po’ l’aspetto più critico del Ladakh perché differentemente dal passato non potrò avere con me un telefono satellitare. Pur essendo una regione relativamente tranquilla dal punto di vista politico, è comunque una regione sensibile, posta al confine con la Cina e lambita dal Pakistan. Una zona in cui attualmente non ci sono conflitti, la situazione è stabile, ma proprio per ragioni di sicurezza, di spionaggio, per quei movimenti che a volte ci sono alle frontiere, viene proibita ogni forma di comunicazione satellitare. Avrò delle SIM locali che dovrebbero consentirmi nei vari villaggi di poter comunicare almeno a voce, se non con dei messaggi, che va tutto bene alla centrale in Italia (Viaggi Avventure nel Mondo). Dovrò essere bravo ogni volta che lascio un villaggio o un punto in cui ci sia campo telefonico, a dare un ragguaglio sulla mia posizione e miei aggiornamenti. Ci sarà una mappa come al solito per seguire la mia posizione in diretta e spero che quel particolare segnale GPS continui a funzionare. E poi abbiamo definito un protocollo, per cui se per un tot di ore non mi faccio sentire o il mio puntino sulla mappa non si muove, qualcuno inizierà a capire che qualcosa non va. E così si attiverebbe la macchina dei soccorsi: il mio punto di riferimento in Italia sentirebbe i referenti in India che sentirebbero i referenti in Ladakh per comprendere come intervenire, sempre sperando che non ce ne sia bisogno. C’è anche da dire che non sia frequente che un ciclista vada in quelle zone in pieno inverno, dunque non è da escludersi che ci sia un passaparola tra i villaggi. Mi sono capitate situazioni simili anche nei precedenti viaggi, che arrivi in un posto e scopri che qualcuno ti stia già aspettando.

Partenza prevista?

Lascerò l’Italia la sera del 16 febbraio per volare in India. Starò qualche giorno a Nuova Delhi e il 20 mi sposterò a Manali. Il 22 dovrebbe essere il primo giorno ufficiale di pedalata.

Hai una idea di quanto dovrebbe durare l’avventura?

Dovrebbe durare circa una ventina di giorni, compresa la fase di acclimatamento. Utilizzo il condizionale perché ho elaborato un piano per l’acclimatamento sulla base delle esperienze passate ma alle temperature che troverò potrebbe essere un po’ più complicato del solito, c’è un margine di incertezza. E poi ci sono condizioni legate al percorso, ci dovessero essere nevicate improvvise, valanghe o slavine, questo si potrebbe tradurre in necessarie modifiche del percorso, quindi magari accorciarlo, o fare un giro più largo.

Possiamo parlare di Antartide?

Vai.

L’hai vissuta come una sconfitta?

Parlare di sconfitta quando fai questo tipo di esperienze per me non avrebbe senso. Non riesco a percepirla come una sconfitta, ma mi è rimasto un po’ di amaro in bocca, come capita quando le cose non vanno secondo i piani. Però poi, se analizzi bene dall’alto e vedi esattamente come stanno le cose, capisci che una traversata del genere è tutto fuorché lineare. Non c’è un “parto oggi e arrivo domani, secondo questo percorso”, è piuttosto un percorso a ostacoli, con tutta una serie di difficoltà che ti trovi ad affrontare. Ed è un vero e proprio cammino, quasi ascetico, verso la meta finale. Quello che è successo fa parte dei risvolti di un’avventura, come quando tenti di conquistare la cima di un Ottomila, in inverno soprattutto: sai che stai partendo per tentarla ma non hai la certezza che la conquisterai. Il Manaslu ci ha insegnato quest’inverno che per raggiungere una vetta servono più tentativi e ogni tentativo è una fase di un progetto più grande. Quindi io vedo questa spedizione in Antartide come la prima parte di un progetto più ampio che spero mi porti nei prossimi anni a raggiungere il mio obiettivo finale: attraversare il continente in bicicletta. È stato un momento sicuramente difficile da affrontare, ma mi ha lasciato un primo bagaglio di conoscenze che mi tornerà utile al mio ritorno lì.

In riferimento alla tua rinuncia in Antartide, hai accennato in fase di rientro in Italia a problematiche di carattere emotivo. Solitamente quando ci si trova ad affrontare un trauma ci si prende del tempo, per rimettersi in sesto. Se qualcuno ti chiedesse “Non è forse presto per ripartire?” cosa risponderesti?

Sono cosciente del fatto che questa sia la prima reazione da aspettarsi di fronte al mio annuncio di voler andare in Ladakh. A me personalmente pare passata una eternità da quando sono rientrato. Sono trascorsi 2 mesi e mi sembrano 2 anni per tutto quello che ho vissuto dentro di me in questo periodo. Prima parlavamo di organizzazione veloce dell’avventura, ed è vero, ma perché c’è questo senso di velocità? Non perché mi sia dato una scadenza, del tipo “devo assolutamente partire entro metà febbraio”, semplicemente mi sono attivato nel momento in cui ho sentito che il tempo fosse maturo. Sento di voler fare questa cosa, ora, e sento di volerla fare come parte del processo di uscita da ciò che è successo in Antartide. Ci riuscirò? Non lo so. Per questo non mi sono dato particolari obiettivi. So che questa spedizione è un po’ un punto di ripartenza e voglio che sia esattamente questo, non un catalizzatore di pressioni e di aspettative.

L’idea di tornare in Antartide non ti ha abbandonato…

Il progetto Antarctica Unlimited è più che mai vivo, e se tutto va come spero, già dal prossimo novembre ripianificherò il mio ritorno in Antartide per ritentare la traversata.

Il teaser della nuova avventura

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