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Monitoriamo i ghiacciai a rischio. Una proposta per il mondo della montagna italiana

Quanti ghiacciai a rischio esistono sulle Alpi italiane? Quante vie normali, quanti itinerari frequentati dagli alpinisti sono minacciati da smottamenti di neve e di ghiaccio tra il Gran Paradiso, il Monte Bianco, le Alpi Pennine e l’Ortles-Cevedale? E’ possibile identificare i “punti rossi” delle nostre montagne, modificare gli itinerari in modo da aggirarli, intervenire con qualche divieto mirato dove il pericolo diventa troppo forte?   

La tragedia della Marmolada è certamente un segnale drammatico del cambiamento climatico in atto. Comprendere questa prospettiva storica, però, non ci deve impedire di affrontare concretamente il problema. Finora la categoria dei glaciologi ha fatto delle affermazioni generali, oggi dobbiamo diventare più concreti” afferma Claudio Smiraglia, professore dell’Università di Milano e animatore del Comitato Glaciologico Italiano.

Siamo stati tutti virologi, poi strateghi internazionali di guerra, in questi giorni abbondano i glaciologi e gli esperti di sicurezza in montagna. Parlare di ghiacciai, della loro dinamica, della loro pericolosità e della percezione che gli umani ne hanno è complesso ma va fatto, con competenza e con rispetto” aggiunge Agostino Da Polenza, presidente del Comitato Ev-K2-CNR e organizzatore di missioni scientifiche sulle montagne del mondo. “I cambiamenti climatici esistono, le temperature sulle Alpi in questi giorni sono alte. Ma non sono ancora riuscito a sentire o leggere un ragionamento sulla dinamica, sulla specificità geomorfologica di quel grumo di ghiaccio apparentemente innocuo della Marmolada, tanto che i glaciologi lo avevano definito morto” prosegue Da Polenza.

In realtà, sulle grandi montagne alpine, negli ultimi anni l’alpinismo si è già trasformato. In estate nessuno più percorre la via da Chamonix verso i Grands Mulets e il Monte Bianco, dove nel 1786 è nato l’alpinismo. Sono stati abbandonati, o lo saranno a breve, itinerari meravigliosi come lo Sperone della Brenva del Monte Bianco, la normale del Gran Zebrù, la parete Nord del Monviso da cui precipitano blocchi di roccia giganteschi. Il seracco della Punta Walker minaccia la via normale delle Grandes Jorasses. A breve potrebbe diventare impossibile salire l’Ortles dal rifugio Payer. Il problema non riguarda solo le Alpi perché l’Annapurna, la prima grande cima della Terra a essere salita dall’uomo, è diventato una trappola infernale, con cattedrali di ghiaccio instabile e canaloni esposti alle valanghe. Gli sherpa riescono ancora a trovare una via relativamente sicura, gli alpinisti arrivano ancora sulla cima. Ma fino a quando?

Oggi noi glaciologi dobbiamo essere concreti. Non basta studiare in generale il fenomeno, o usare la trasformazione dei ghiacciai per capire come si evolve il clima della Terra” prosegue il professor Smiraglia. “Il rischio di crolli glaciali in valloni frequentati solo da stambecchi e marmotte in questo momento ci deve interessare poco. Serve uno sforzo straordinario per studiare i pericoli che minacciano i ghiacciai frequentati, gli itinerari dove ogni estate passano decine o centinaia di cordate. Dobbiamo farlo subito”. 

Servono due cose, mitigazione e adattamento. La prima significa intervenire sulle cause dei cambiamenti climatici, provando a produrre quantità minori di CO2 e di altri gas. Poi però abbiamo il dovere di fare tutte le azioni necessarie per diminuire i danni contingenti. Dobbiamo studiare il pericolo, e adattarci. Non basta la diagnosi, servono anche l’indicazione terapeutica e la cura” continua Agostino Da Polenza. 

Qualche anno fa il progetto europeo Glaciorisk ha avviato il monitoraggio capillare dei movimenti dei ghiacciai. In Valle d’Aosta la Fondazione Montagna Sicura, diretta da Jean-Pierre Fosson, tiene d’occhio con tecnologie avanzate i ghiacciai che minacciano la Val Ferret, tra cui quello di Planpincieux. Oggi propongo di concentrarci sulle situazioni pericolose per gli appassionati di montagna” conclude Smiraglia. 

Per fare questo serve uno sforzo collettivo. C’è bisogno dell’intervento del Soccorso alpino e del CAI, ci sarà bisogno di fondi. Prima di tutto, però, devono essere i singoli appassionati a indicare dove intervenire. Un esempio di Citizen Science, di ricerca portata avanti con il contributo dei cittadini, che siano professionisti della montagna (guide alpine, gestori, autori di itinerari sulla carta o sul web…) o semplici appassionati.  

E’ necessario capire se limitarsi a controllare i possibili smottamenti di ghiaccio, o se includere nel monitoraggio i possibili crolli dovuti alla riduzione del permafrost, lo strato di ghiaccio sotterraneo che fa da collante alla roccia. C’è un problema tecnico, per capire quali strumenti, a iniziare dal georadar, possono essere utilizzati con efficacia sul terreno. “In questi giorni, in Pakistan, sta partendo il progetto Glaciers and students, supportato dalla Cooperazione italiana e dalle Nazioni Unite e affidato alla realizzazione di Ev-K2-CNR. Prevediamo di realizzare in 30 mesi il catasto di 5.300 ghiacciai, che formano il più grande deposito d’acqua dolce dell’Asia” spiega Agostino Da Polenza. Un’azienda italiana, di Bologna, ha fornito nei mesi scorsi più di un centinaio di stazioni meteorologiche all’United Nations Development Program per il monitoraggio in tempo reale dei ghiacciai del Pakistan” prosegue Da Polenza. “L’obiettivo è di tener d’occhio i GLOF, i laghi glaciali che possono scatenare delle inondazioni improvvise, minacciando i villaggi del Karakorum. Conoscere serve a prevenire, in Asia come sulle Alpi”. 

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Un commento

  1. Fate in modo che questo articolo,specialmente le prime 9 righe,vengano lette dai giornalisti che fanno salotto in tv. Grazie Agostino da Polenza

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