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Dal Gran Tour ai rifugi alpini, breve storia di come la geologia ha fatto nascere il turismo in montagna

Le montagne nascono poco più di tre secoli fa. Affermazione discutibile, che sicuramente farà rizzare i capelli sulla testa di chi un po’ si intende di geologia. Eppure, per molti aspetti, è proprio così.

La negazione delle montagne

Fino agli albori del XVIII secolo nell’orizzonte dell’immaginario europeo le montagne sono praticamente assenti. Lo testimoniano le mappe di epoca medioevale e rinascimentale arrivate fino a noi, dove gli elementi del paesaggio di pianura (fiumi, laghi, campi, foreste, strade e città) sono relativamente ben definiti, mentre le montagne sono quasi sempre rappresentate con estrema semplificazione, spesso come una serie di “onde” uguali l’una all’altra, senza alcuna attenzione al dettaglio realistico. Le montagne non ci sono perché non c’è nulla di interessante da vedere o da cercare lassù. Anzi il paesaggio montano, con il suo caos immenso di rocce e ghiacciai è una vista che genera orrore e disgusto e uno spazio che si riempie di pericoli reali, come il maltempo e i briganti, e immaginari: spiriti e esseri spaventosi di ogni genere. Non mancano, nella letteratura di viaggio di quei secoli testimonianze di viandanti che affrontavano bendati i valichi alpini, proprio per non rimanere sconvolti dalla visione di un ambiente che sembrava rappresentare la nemesi dell’idea allora dominante di un mondo creato da Dio e quindi permeato da un progetto di ordine e razionalità.

Eppure, per quanto negate, le montagne, le Alpi in particolare, sono lì, nel cuore d’Europa. Rappresentano un ostacolo che viandanti, pellegrini, mercanti ed eserciti devono superare. Proprio nel corso di questi ripetuti passaggi, l’assurdo dell’ambiente alpino comincia a destare l’interesse degli osservatori più curiosi.

La nascita biblica della montagne, il tempo irrompe nella natura

Sul finire del XVII secolo il pastore anglicano Thomas Burnet è il primo uomo di cultura a dedicare tutto il suo tempo ed energie per cercare di spiegare “come quella confusione fosse sopravvenuta in Natura”. Il frutto delle sue indagini è il volume che dà alle stampe nel 1681 con il titolo di “Thelluris Theoria Sacra”, dove la nascita delle montagne è spiegata a partire dal racconto biblico del Diluvio Universale. Secondo Butrnet la terra era stata creata come uno sferoide perfetto, un guscio d’uovo liscio e omogeneo. Quando, per punire la malvagità umana, Dio inviò il diluvio, il guscio si ruppe per far uscire in superficie gli oceani dell’abisso sotterraneo e, una volta ritirate le acque, gli immensi frammenti del “guscio” terrestre, sparsi e accatastati a casaccio, formarono le montagne che oggi vediamo.

La teoria di Burnet suscitò grande scalpore, raccogliendo adesioni entusiastiche e critiche scandalizzate ma, soprattutto, segnò un punto di non ritorno. Per i suoi contemporanei era ancora ovvio pensare che la dimensione storica ed evolutiva fosse qualcosa che apparteneva solo al mondo degli uomini e che invece il paesaggio naturale fosse rimasto assolutamente immutato dai tempi della creazione. Con la pubblicazione della “Theoria Sacra” il tempo irrompe nella natura: il paesaggio attuale comincia a essere visto come il frutto di successive trasformazioni e, in men che non si dica, l’età della Terra, che nel 1600 si faceva ancora risalire a non più di 6000 anni addietro, verrà retrocessa di milioni di anni. I sette giorni della creazione finiranno per non essere più intesi alla lettera, ma interpretati come la rappresentazione simbolica di intere ere geologiche.

Le montagne diventano un grande libro di storia

Per gli uomini di cultura e gli scienziati del 700, il Secolo dei Lumi, il paesaggio naturale diviene un abisso di tempo e storia, pieno di enigmi da risolvere e misteri da portare alla luce. Le montagne, più di ogni altro elemento della natura, diventano il grande libro dove è possibile rintracciare e leggere i segni che consentano di decifrare questi enigmi. Le caratteristiche delle rocce e le loro stratificazioni, così evidenti sulle pareti alpine, raccontano a chi le sa interpretare la storia geologica di un mondo in divenire. Anche i ghiacciai, allora in costante espansione, divengono un fenomeno di estremo interesse, che porta ad ipotizzare future ere nelle quali la terra diverrà un’immensa palla di neve… I fossili che si ritrovano in abbondanza, poi, suscitano altrettanta curiosità e domande su come i resti di certi esseri marini siano arrivati sulle cime più alte e su cosa abbia causato l’estinzione di quelle strane forme di vita e la nascita di quelle attuali.

Non sono però solo gli specialisti ad interessarsi di questi argomenti e a rivolgere il loro sguardo alle montagne. Nel XVIII secolo la geologia è una vera e propria moda e i libri che ne parlano sono spesso dei bestseller. Questo fa si che le montagne, fino a pochi decenni prima ignorate o guardate con ribrezzo e sospetto, diventino un oggetto di estremo interesse, al centro dell’attenzione collettiva.

Già alla fine del 700 la curiosità verso l’ambiente montano viene considerata un “sentimento naturale” e nel Gran Tour, che rappresenta il culmine del percorso di formazione delle classi colte europee, le Alpi, che prima erano solo un fastidioso ostacolo da superare, cominciano a divenire una tappa quasi obbligata, al pari della visita alle grandi città d’arte italiane. Il Monte Bianco, con la maestosità delle sue guglie rocciose e dei suoi ghiacciai, diviene il simbolo di tutto ciò: lo scenario che chiunque voglia affermare di intendersi di storia naturale deve aver contemplato almeno una volta nella vita. È così che nasce il turismo montano vero e proprio. Ai piedi del Monte Bianco, nel piccolo villaggio alpino di Chamonix, cominciano a confluire i rappresentanti dell’intellighenzia europea.

Si tratta ovviamente di un turismo d’élite, riservato ad una strettissima cerchia di persone molto abbienti. Nel 1770 viene inaugurato il primo albergo di Chamonix, costoso e lussuoso “rifugio” dei nuovi viaggiatori alpini.

Con il nuovo secolo il flusso del turismo continua ad aumentare. Il sorgere dello spirito romantico, infatti, sta trasformando le montagne in qualcosa di più e di diverso da un semplice oggetto di interesse scientifico. Il poeta inglese John Rusckin arriva a definirle “le grandi cattedrali della Terra”, paragone che sta chiaramente ad indicare come esse siano ora anche un luogo dello spirito. Le montagne, con la loro dimensione immensa di spazio e di tempo, sono un’occasione di contemplazione dell’infinito, di fronte ai loro dirupi e ai loro ghiacciai tormentati è possibile sperimentare quel sentimento di “dilettevole orrore” e quelle percezioni di orrido e sublime così care alla sensibilità del tempo.

La nascita dell’alpinismo e dei rifugi alpini

Ma i visitatori delle montagne non si limitano a contemplarne la grandiosità dal fondo valle. Già fra i pionieri della scienza ci sono avventurosi e infaticabili camminatori come il geologo Horace-Bénédict de Saussure, che, per le loro ricerche, si spingono oltre il limite dei pascoli e cominciano a penetrare il mondo ostile delle alte quote. È proprio De Sassure, a lanciare la sfida e a mettere a disposizione la ricompensa in denaro che, nel 1786, porta Jacques Balmat e Michel Gabriel Paccard a raggiungere per primi la vetta del Monte Bianco, decretando così l’atto di nascita dell’alpinismo. Lo stesso de Sassure salirà in vetta al Monte Bianco l’anno successivo, misurandone l’altezza.

Con l’arrivo degli alpinisti nell’orizzonte del turismo montano, che per tutto il 700 era stato prevalentemente di tipo scientifico e culturale, irrompe la dimensione sportiva.

Al piacere romantico della contemplazione a distanza dell’abisso e dei suoi potenziali pericoli (magistralmente rappresentata nel celebre quadro del “Viandante sul mare di nebbia”, opera del pittore Caspar David Friedrich), gli alpinisti affiancano e spesso sostituiscono il gusto dell’affrontare direttamente l’abisso stesso e la sua vertigine. Con loro l’immaginario montano si carica di nuovi significati, di una nuova estetica e di nuove geometrie. Nel caos indefinito e grandioso dei monti si delineano “linee logiche” e tutto un cosmo ordinato di creste, spigoli e pareti, forme e proporzioni che assumono senso in funzione della montagna vista come “terreno di gioco” di quella pratica sportiva che è la salita di un itinerario alpinistico.

Per realizzare il proprio sogno di vetta gli alpinisti sono inoltre disposti ad accettare fatiche e privazioni e a fare tappa in avamposti di alta quota che nulla hanno da spartire con i lussuosi alberghi del fondo valle. È così che nel corso dell’800 nascono i primi rifugi alpini intesi in senso moderno. Sul versante italiano fra i primi ad essere edificati ci sono il rifugio Alpetto a 2268 metri di quota sul Monviso, realizzato nel 1866, la Balma della Cravatta al Pic Tyndall sul Cervino (4134 m), nel 1867, le Capanne delle Aiguilles Grises sul Monte Bianco (oggi Quintino Sella), Linty sul versante sud del Monte Rosa e Regina Margherita al Colle del Gigante sull’area attualmente occupata dai rifugi Torino, nel 1875. Nel 1876 viene costruita la Capanna Gnifetti sul Monte Rosa e nel 1893 il rifugio e laboratorio scientifico Capanna Regina Margherita, il più alto d’Europa, situato a 4554 metri di altitudine, sulla Punta Gnifetti.

Nei decenni in cui gli alpinisti conquistano le più alte vette, le vallate verranno “colonizzate” da un’altra tipologia di turisti, che guarderanno al paesaggio montano in una prospettiva ancora differente.

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