AlpinismoStoria dell'alpinismo

Baltoro 1975, quando gli italiani “inventarono” le big wall del Karakorum

Nella storia dell’alpinismo italiano e mondiale il 1975 è l’anno della spedizione alla parete sud del Lhotse, l’ultima grande spedizione himalayana organizzata sotto l’egida ufficiale del CAI nazionale, e di quella (di qualche mese successiva) di Reinhold Messner e Peter Habeler al Gasherbrum I, il primo 8000 salito in stile alpino. Due imprese dall’esito affatto differente (la prima naufragò in un mare di neve, slavine e contrasti; la seconda fu un completo successo), che focalizzarono l’attenzione del pubblico e segnarono sicuramente il punto di svolta, anzi di completa frattura, fra il vecchio e il nuovo stile di scalata sulle più alte vette del pianeta.

Sotto l’aria sottile degli 8000 metri

Ma sotto alle quote estreme degli 8000 in quel periodo così ricco di cambiamenti e spinte innovative, accadeva anche qualcos’altro. Nuove idee bollivano in pentola e realizzazioni innovative prendevano forma.

Lo sterminato orizzonte delle vette himalayane di 5, 6 e 7 mila metri, sino ad allora quasi del tutto ignorato, stava per essere preso d’assalto da una nuova generazione di scalatori, interessati ad un alpinismo leggero e di alta difficoltà tecnica, per il quale, come avrebbe scritto Alex MacIntyre, alcuni anni più tardi, nell’introduzione al libro Himalaya Stile Alpino, “La parete era l’ambizione e lo stile divenne l’ossessione”.

Il manifesto di questa nouvelle vague della scalata himalayana sarebbe stato scritto nel 1976 da Peter Boardman e Joe Tasker con la salita della stupenda parete ovest del Changabang (6.864 m). Un anno prima che i due inglesi compissero la loro celebre impresa, alcuni antesignani, per lo più ignorati dalla cronaca del tempo e forse ancora oggi non adeguatamente compresi dalla storia, erano già in azione fra le montagne dell’Asia, diretti alla meravigliosa architettura granitica della Cattedrale Grande del Baltoro.

Curiosamente questi “rivoluzionari” provenivano dall’ambiente decisamente conservatore dell’alpinismo italiano. Un ambiente dove, però, da qualche tempo, gli scalatori più intraprendenti avevano cominciato ad annusare il vento del rinnovamento. La spedizione di cui qui vi vogliamo raccontare nasce in seno alla sottosezione Cai di Belledo, un piccolo sodalizio, attorno al quale orbitano però i migliori rampolli della gloriosa tradizione alpinistica lecchese, molti dei quali vestono il maglione rosso dei Ragni della Grignetta.

Il suggerimento di Messner

Negli anni il Cai Belledo è divenuto una fucina di idee oltre che di scalate, dando vita ad un’intensa attività culturale con serate e convegni, che portano a Lecco i più bei nomi dell’alpinismo italiano e internazionale. Fra questi anche un giovane Reinhold Messner, che ha cominciato solo da poco il cammino sulla strada che lo porterà a diventare noto in tutto il mondo come il re degli 8000, ma è giù divenuto un mito per le nuove generazioni di alpinisti, rivoluzionando la scalata alpina con salite strepitose, che hanno decretato la fine dell’epoca d’oro dell’artificiale e il ritorno alla scalata libera. È proprio lui a suggerire agli amici lecchesi la meta adatta per la spedizione che vorrebbero realizzare. Nelle sue peregrinazioni verso le più alte cime dell’Asia, infatti, lo scalatore altoatesino ha avuto modo di ammirare le impressionanti guglie che fanno bella mostra di sé proprio all’ingresso del ghiacciaio del Baltoro e di guardarle non soltanto come una delle meravigliose quinte che abbelliscono il trekking di avvicinamento ai colossi del Karakorum, ma come oggetto di desiderio alpinistico a sé stante. È una selva di pareti verticali di ottima roccia, degne del migliore granito del Monte Bianco, ma che superano abbondantemente la quota del Tetto d’Europa. Un giardino colmo di succulenti frutti ancora tutti da cogliere e una sfida che sembra fatta apposta per gli eredi di una tradizione alpinistica come quella lecchese, che ha sempre saputo esprimersi al meglio su obiettivi di estrema difficoltà tecnica su roccia ancor più che su ghiaccio.

Il permesso rifiutato e il piano B

I giovani amici colgono al volo il suggerimento e, nei primi mesi del ‘75, cominciano i preparativi per la spedizione. L’obiettivo prescelto è fra i più ambiziosi: la splendida e inviolata Torre Grande di Trango, una vetta che, su ciascun versante, ha la verticalità di un Cerro Torre o di un Fitz Roy, ma che tocca i 6286 metri.

In linea con la loro tradizione, che ha fatto dell’alpinismo di gruppo il proprio punto di forza, i lecchesi si apprestano a partire con un team molto numeroso, ma con una peculiarità davvero inedita: questa è indubbiamente la spedizione dei giovani. Quasi tutti i membri della squadra, infatti, hanno meno di 30 anni e molti non raggiungono i 25. La giovane età non indica necessariamente una mancanza di esperienza. Alcuni di loro, come Daniele Chiappa, Ernesto Panzeri, Giuseppe Lafranconi e Gianluigi Lanfranchi, hanno già avuto modo di conoscere a fondo la vita di spedizione partecipando l’anno precedente alla durissima impresa sulla Ovest del Cerro Torre. Gli altri hanno già dato prova delle proprie capacità confrontandosi con le vie più difficili delle Alpi. I nomi sono quelli di Benvenuto (Ben) Laritti, Carlo Duchini, Amabile Valsecchi, Pierino Maccarinelli, Sergio Panzeri e Giacomo Stefani. Con loro il torinese Arnaldo Colombari, il medico Alberto Sironi e l’imprenditore e grande appassionato di montagna Giulio Fiocchi nel ruolo di capo spedizione.

Quando ormai tutto è pronto per la partenza, dal Pakistan arriva a sconvolgere i piani una notizia decisamente inattesa: la richiesta di autorizzazione per la scalata è stata rifiutata. Il governo del paese asiatico ha concesso il permesso a un’altra spedizione. Nella loro richiesta i lecchesi avevano indicato come seconda scelta la Cattedrale Grande del Baltoro, ed è proprio quest’ultima la meta autorizzata. Difficile digerire il rifiuto e mettere i cima alle proprie priorità quello che fino al giorno prima era solo un ripiego, ma quel bastione immenso che si alza direttamente dal ghiacciaio con pareti di oltre 1500 metri di dislivello, fino a sfiorare i 6000 metri di altitudine e che ancora nessuno scalatore ha mai salito, un poco alla volta riesce a fare breccia nei sogni dei giovani lecchesi. Anche se non ha la temibile eleganza e la selvaggia imponenza della Torre Grande di Trango, la Cattedrale del Baltoro è sicuramente un terreno ideale dove sperimentare quell’alpinismo nuovo che eccita la loro fantasia e le loro ambizioni.

La spedizione

La spedizione lascia Lecco il 31 maggio e, attorno alla metà di giugno, stabilisce il campo base a 3900 metri ai piedi della Cattedrale Grande.

Lì, fra le tende piantate sul ghiacciaio, si ripropongono le stesse diatribe, tensioni e divergenze di visione che animano e agitano l’alpinismo di quegli anni: mettere al primo posto la cima, attaccando l’infinita cresta Sudovest, che conduce direttamente alla punta Thunmo, apice della Cattedrale, approntando un tipico assedio in stile himalayano, oppure puntare alla compatta parete Sudest, da cui difficilmente sarà possibile arrivare in vetta, ma che lo stesso Messner ha indicato come teatro ideale di una rivoluzionaria esperienza di pura arrampicata su roccia, dove ingaggiarsi con la libera e mettere in pratica l’ideale dello stile alpino?

Il pensiero di una salita che non si concluda sulla vetta va probabilmente oltre l’orizzonte del capo spedizione Giulio Fiocchi, che decide di concentrare gli sforzi sulla cresta Sudovest.

Si attacca quindi lo sperone Sud-sudovest, affrontando difficoltà continue di IV e V grado e piazzando due campi e 1000 metri di corde fisse. Da lì in avanti le difficoltà la cresta Sudovest prosegue con difficoltà che paiono diminuire. La strada da percorrere è ancora lunga, ma si comincia a sentire odore di cima. Il maltempo però arriva puntualmente a scombussolare le prospettive più rosee, costringendo tutti a fare rientro al campo base.

Nell’inattività forzata i pensieri girano nelle teste degli alpinisti e le discussioni riprendono vigore. Sono soprattutto i più giovani del gruppo ad esprimere dubbi e insoddisfazione: la via che stanno affrontando, e soprattutto lo stile con cui la stanno salendo, con tutte quelle corde fisse e quel vai e vieni dai campi, non è sicuramente un esempio di quell’alpinismo nuovo che tanto sognavano di mettere in pratica. La muraglia della parete Sudest, invece… lì sì che si potrebbe ancora tentare qualcosa di veramente inedito! Gli animi si scaldano, ma questa volta le divergenze, invece di dividere le forze, le moltiplicano. Fiocchi prende una decisione temeraria che però si rivela vincente: sceglie di lasciare briglia sciolta ai giovani “insubordinati”. In fondo per concludere la salita della cresta non è necessario tenere impegnata tutta una squadra così numerosa e il tempo rimanente potrebbe essere ancora sufficiente per portare un serio tentativo alla parete Sudest.

Appena il meteo volge di nuovo al bello il gruppo composto da Laritti, Lafranconi, Lanfranchi,Valsecchi ed Ernesto Panzeri torna a salire le fisse per portarsi rapidamente verso la parte superiore della cresta, mentre Chiappa, Maccarinelli, Stefani, Duchini e Sergio Panzeri attaccano la parete. Hanno ben poco materiale a disposizione e, volenti o nolenti, devono puntare tutto sulla velocità e sulla leggerezza.

Sulla cresta la salita sembra un catalogo degli elementi più caratteristici del classico “ravanage” d’alta quota: cornici inconsistenti, frustranti pendii di neve marcia, tratti di ghiaccio ripido e placche verglassate e difficili da proteggere… In parete, invece, i cinque ribelli trovano esattamente quello che andavano cercando: un granito solcato da fessure fantastiche, che li impegna per ben 40 tiri di corda con difficoltà di V e VI in libera e fino all’A3 in artificiale. L’8 luglio, dopo sei giorni di scalata, durante i quali piazzano solo 150 metri di corde fisse e 50 di scalette metalliche, raggiungono il punto dove la parete perde verticalità e da lì si calano, senza raggiungere la punta Thunmo. Una scelta forse obbligata dalle condizioni oggettive della morfologia della montagna, ma che ben rispecchia le istanze del nuovo alpinismo per il quale la via – e lo stile con cui viene salita – sono una meta e un risultato importanti almeno quanto la cima. A raggiungere la vetta ci pensano invece i compagni impegnati sulla cresta, che, il 10 luglio, si ritrovano al vertice della Cattedrale Grande del Baltoro.

Un duplice ed eccezionale risultato con cui, sotto molti aspetti, vengono anticipate le imprese che, nei decenni successivi, vedranno i migliori climber del mondo impegnati ad inseguire il sogno della scalata sul granito delle magnifiche big wall d’alta quota.

Tags

Articoli correlati

2 Commenti

  1. Che storia di una salita memorabile ricca di personalità e di contrasti.
    Molte sono morte, gli altri piano piano si dimenticano.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Back to top button
Close