AlpinismoGente di montagna

Pierluigi Bini

“Ci sono momenti in cui davvero ti senti immortale, come dice Manolo nel suo libro. Senti che è molto difficile che possa succederti qualcosa e non ci pensi mai che, ad esempio, ti potrebbe rimanere in mano un appiglio. O forse li prendi così bene gli appigli che è molto difficile che li stacchi; sei così in sintonia, sei posizionato così bene sulla roccia che, anni dopo, quando cala l’allenamento, non riesci a spiegarti come hai fatto allora a non cadere”.

Pierluigi Bini (dal libro “Perché lassù” – Mondadori 2021)

La rivoluzione in scarpe da tennis… Volendo essere sintetici si potrebbe riassumere così il ruolo di Pierluigi Bini nella storia dell’alpinismo. Ma nella sintesi si perderebbero di sicuro dettagli importanti.

È vero, infatti, che le mitiche Superga calzate dallo scalatore romano sono divenute un’icona dei cambiamenti cui il mondo della scalata è andato incontro a partire dalla seconda metà degli Anni 70, quando l’epoca degli scarponi rigidi, delle staffe e della scalata artificiale è tramontata, lasciando il posto alla riscoperta della “libera”. Ma la rivoluzione non è solo una questione di tecniche e attrezzature, quello che in quegli anni stava cambiando davvero radicalmente era l’approccio alla scalata. C’era tutta una retorica dell’Alpe, fatta di valori, gerarchie e simboli ancorati ad un passato in cui il nuovo alpinismo e le nuove generazioni non si riconoscevano più.

Quel ragazzino venuto dal Centro Italia, con le sue scarpe da tennis e le tute da ginnastica, che se ne andava in giro per le vie più famose delle Dolomiti spesso in cordata con un vecchietto con l’asma e un principio di Parkinson, era, uno sberleffo irriverente a tutto quel pesante e ingessato apparato retorico. Uno sberleffo che diventava schiaffo quando Bini saliva leggero in arrampicata libera lungo le placche impossibili del Gran Sasso, oppure correva in solitaria sulle grandi vie delle Dolomiti, in salita e in discesa… Il tutto sempre all’insegna di un salutare gusto per il divertimento e l’ironia, che rende ancora oggi attuale e dirompente la sua figura e il suo modo di vivere l’alpinismo.

La vita e l’alpinismo

Pierluigi Bini nasce nel 1959 a Pontedera, in Toscana, ma ben presto gli impegni di lavoro del padre portano la famiglia a trasferirsi nei sobborghi di Roma. Pierluigi cresce quindi nelle borgate, ben lontano dagli ambienti legati alla montagna e all’alpinismo. Però è un ragazzino curioso e assetato di avventura. Come tanti altri sogna i grandi spazi dell’Ovest americano, legge le storie dei pionieri e dei trappers e tutto ciò che ha a che fare con l’esplorazione e le imprese ai confini del mondo.

È proprio inseguendo questi stimoli che, a 14 anni, sfogliando con gli amici un’enciclopedia, si imbatte nella voce “Alpinismo”. Ancor più della definizione lo incantano le immagini: le figure di quegli uomini aggrappati a rocce verticali, centinaia di metri sopra i ghiacciai. Immediatamente, assieme agli amici, prova a imitare gli eroi visti in fotografia. Cominciano con maldestri tentativi di discesa in corda doppia, giù dalle scarpate al cui fondo corrono i binari del tram, e proseguono scavando con scalpello e martello appigli e appoggi nei piloni di cemento armato dei cavalcavia della Caslina.

Visto l’entusiasmo dimostrato e dopo essere venuti a conoscenza dei suoi rocamboleschi approcci da autodidatta sulle pareti del Monte Morra, una della storiche palestre nei pressi della Capitale, i genitori decidono di iscriverlo al corso roccia del CAI. È proprio in quell’occasione che Pierluigi conosce Rys’ Zaremba, un forte scalatore decisamente aperto alle novità. Racconta, infatti, lo stesso Bini: “A un certo punto vidi uno che arrampicava con un’eleganza che non avevo mai visto, aveva proprio una marcia in più. Gli altri, istruttori compresi, si tiravano su tutti rigidi con quegli scarponi pesanti, questo qua invece era un specie di gatto e saliva leggero con un paio di scarpe da ginnastica ai piedi. Rimasi folgorato!”.

Anche Zaremba riconosce il talento del giovanissimo allievo e, dopo il corso, continua a scalare con lui, ripetendo alcune delle classiche impegnative del Gran Sasso. È sempre lui a far scoprire a Pierluigi le Dolomiti: la prima via che percorrono assieme è la Del Torso al Ciavazes. Non è un itinerario difficile, ma il maestro e il suo giovanissimo allievo lo salgono entrambi completamente slegati. Pierluigi ha solo 15 anni!

A partire da queste esperienze di formazione cominciano per Bini cinque anni di alpinismo “matto e disperatissimo”, durante i quali tutto il suo tempo e le sue energie sono completamente focalizzate sulla montagna, a scapito della carriera scolastica e anche delle normali relazioni sociali. In un momento di transizione e di crisi l’alpinismo diviene per lui una via di fuga da una realtà alla quale si sentiva estraneo. La scalata occupa tutti i suoi pensieri e il suo tempo, anche perché è uno dei primi a comprendere l’importanza dell’allenamento specifico e sistematico. Si dedica alla corsa per aumentare la prestazione aerobica e con le molle migliora la forza degli avambracci. Per prepararsi alle grandi salite concatena slegato le vie del Monte Morra in salita e in discesa, così da coprire almeno 1500 metri di scalata in un giorno (ma il suo record arriva anche a 3800!) e sul Gran Sasso percorre anche 11 vie in giornata.

I risultati non si fanno attendere. Grazie alla sua preparazione e alle Superga “che stanno appiccicate dappertutto” Pierluigi è fra i primi a prendere di mira le meravigliose placche di roccia compatta del Gran Sasso, dove rare sono le possibilità di chiodare e dove abilità in arrampicata libera, equilibrio e sangue freddo sono ingredienti essenziali per superare indenni le difficoltà.

Nascono così itinerari divenuti mitici per gli scalatori del Centro Italia, come il Diedro di Mefisto sulla parete est del Corno Grande, le Placche di Manitù o la Via del Vecchiaccio. Quest’ultima è dedicata a Vito Plumari che in quegli anni diviene uno dei più fedeli compagni di avventura di Bini. Si conoscono a scuola, dove Vito fa il bidello e, inizialmente, Pierluigi e compagni lo coinvolgono nelle loro scorribande alpinistiche principalmente per il fatto che lui possiede patente e automobile.

Ben presto però i due divengono un team tanto improbabile quanto affiatato. Vito, infatti, è ormai anziano e le sue condizioni di salute sono tutt’altro che ottimali. Parla in continuazione, in una lingua tutta sua (un misto di italiano, siculo e romano) e agli attacchi delle vie arriva portandosi appresso tutto un armamentario di borse e borsine, da cui, fra le corde e i moschettoni, spuntano bottiglie di marsala e uova sode. Messi assieme sono esattamente l’antitesi dell’immagine classica e stereotipata dell’alpinista.

Non sono pochi quelli che, vedendoli all’attacco di una via, li danno per spacciati, per poi restare stupefatti dalla straordinaria abilità e velocità di quella cordata improbabile. Bisogna essere rivoluzionari come loro per riuscire a vedere oltre le apparenze.

Infatti, uno che da subito li prende sul serio è Heinz Mariacher, un altro giovane che in quegli anni sta reinventando l’alpinismo e sta spingendo ai massimi livelli la scalata libera. Parlando del Vecchiaccio, Mariacher lo definisce: “L’unico vero alpinista, quello che arrampica per se stesso solamente, uno sciamano alla stregua del Don Juan dei libri di Castaneda”. È proprio la conoscenza di Mariacher a dare una svolta all’attività alpinistica di Bini. Si incontrano per la prima volata sulla via Micheluzzi al Ciavazes, dove Pierluigi sta salendo in cordata con il Vecchiaccio. Mariacher li supera slegato e prosegue la sua scalata salendo e scendendo per altri itinerari della parete. “Io allora arrampicavo già da due stagioni e pensavo di essere forte – commenta lo scalatore romano – ma, vedendo lui, mi sono sentito un principiante e ho capito che c’erano ancora tante cose da fare e limiti che potevano essere superati”.

Un altro compagno di Bini sulle salite più difficili è Alberto Campanile, di Mestre. Trascorrono assieme i mesi estivi, passando da una parete all’altra, spesso facendo la fame e dormendo nella famosa casa cantoniera abbandonata del passo sella, che in quel periodo diviene il rifugio di tanti ribelli dell’alpinismo dolomitico.

L’attività di Pierluigi e compagni è davvero seriale; assieme ripetono, spesso con tempi di salita strabilianti e spingendo al massimo l’arrampicata libera, molte delle vie più impegnative dell’epoca. Nonostante il loro approccio innovativo e apparentemente irriverente, il confronto e l’ammirazione verso i grandi dell’alpinismo che li hanno preceduti resta una delle motivazioni fondamentali: “Era splendido essere faccia a faccia con i nostri miti – ricorda Bini – salire la Cima Ovest di Lavaredo sapendo che si stavano ripercorrendo le orme di Riccardo Cassin, oppure sfiorare i chiodi piantati da Emilio Comici... Quando arrivavamo al termine di una via, in cima eravamo così vittoriosi, non ci sembrava vero!”.

È però nella scalata solitaria, proprio a confronto con le vie dei grandi scalatori del passato, che Pierluigi trova la sua dimensione ideale, realizzando exploit che restano nella storia dell’alpinismo. Così nascono le solitarie della Via dei Fachiri alla Cima Scotoni, della Detassis al Croz dell’Altissimo, della Gogna alla parete Sud della Marmolada, della Via dei Polacchi alla Nordovest del Civetta, della Aste Navasa al Crozzon di Brenta, della Buhl al Ciavazes e della Soldà al Pordoi. Quest’ultima scalata Bini la realizza completamente slegato, senza alcuna attrezzatura alpinistica, tanto che all’uscita gli operatori della funivia, che di solito offrivano un passaggio gratuito agli scalatori, si rifiutano di imbarcarlo, non credendo che qualcuno avesse potuto venire su dalla Soldà con indosso solo una tuta e un paio di scarpe da ginnastica. Un’altra avventura dove non manca una nota di umorismo è quella della discesa solitaria dalla Graffer al Campanile Basso di Brenta, che Bini realizza “a vista”, senza mai aver percorso la via neppure in salita. Mentre procede incrocia una cordata i cui membri, sconcertati, gli urlano: “Ragazzino, stai sbagliando strada! La via di discesa è dall’altra parte!”.

Gli orizzonti del giovane talento romano vanno anche oltre i Monti Pallidi e arrivano fino in Africa, dove, nel 1979, partecipa ad un’avventurosa spedizione esplorativa fra le montagne dell’Hoggar assieme ad Almo Giambisi e Heinz Mariacher, e poi alla Yosemite, la patria del nuovo alpinismo. Quest’ultima avventura, però, arriva fuori tempo. Dalla mitica valle californiana Bini rientra in anticipo sul previsto, praticamente senza aver fatto neppure una scalata. Qualcosa è cambiato definitivamente nel suo rapporto con la montagna. Il suo alpinismo totalizzante è ormai giunto al termine. Arrivato alla soglia dei 20 anni sente il richiamo di una vita più “normale”: un lavoro, una ragazza, una casa. Fine della sua storia fra le pareti dunque? Assolutamente no! Dopo una pausa di qualche anno Bini riprende ad arrampicare e tutt’ora si mantiene in forma perfetta e, ogni tanto, si concede qualche bella avventura solitaria.

Stando a quello che dice lui il sacro fuoco di un tempo è ormai sopito, ma chi lo conosce sa che la fiamma è sempre pronta a riaccendersi, come è accaduto qualche tempo fa, quando è tornato in azione al Monte Morra, superando il suo record giovanile e portando i metri di scalata solitaria a oltre 4000 in un solo giorno!

Le principali salite

  • Via dei Fachiri (Cima Scotoni) prima solitaria
  • Via Gogna Giambisi ( Punta Rocca parete Sud Marmolada) prima solitaria
  • Via dei Polacchi (Pan di Zucchero Civetta parete Nord Ovest) prima solitaria
  • Via Graffer ( Campanile Basso di Brenta) prima discesa solitaria
  • Via Aste Navasa (Crozzon di Brenta) prima solitaria
  • Diedro Oggioni (Brenta Alta) prima solitaria
  • Via Detassis ( Croz dell’Altissimo) seconda solitaria in due ore
  • Via Laritti Giongo Rainis ( Croz Dell’Altissimo) prima ripetizione
  • Diedro Bhull (Piz ciavazes) prima solitaria
  • Via Reali (Piz Ciavazes) prima solitaria e discesa dallo spigolo Abram prima discesa solitaria
  • Via Soldà ( Sass Pordoi ) prima solitaria
  • Via Philipp flamm (parete Nord Ovest Civetta) in 8 ore 1977 con Alberto Campanile.
  • Sul Gran Sasso parecchie vie da solo in salita e in discesa fra cui la via Rosy al Monolito in discesa solitaria.
  • Le più importanti prime salite sul Gran Sasso: Via Del Vecchiaccio , Diedro di Mefisto, Via Stefano Tribioli, Placche di Manitù, Placche del Totem.
  • Nel massiccio dell’Hoggar (Sahara): Via degli Spagnoli ( Garet el Djenoun ) con almo Giambisi, Heinz Mariacher e Luisa Iovane .

Libri

  • Rotti e Stracciati, Aria di Roma sulle cime, Alberto Sciamplicotti, Alpine Studio, 2020 (prima edizione Centro Documentazione Alpina, 2000)
  • I conquistatori del Gran Sasso, in Storia, miti, leggende, conquiste e tragedie dell’alpinismo del Gran Sasso d’Italia, Marco Dell’Omo, Cda & Vivalda Editori, 2005
  • Giorni della Grande Pietra, Stefano Ardito, Versante Sud, 2010
  • Perché lassù, AA.VV., Mondadori, 2021

Film

Lazio Verticale, Fabrizio Antonioli, Stefano Ardito, AI – Centro di cinematografia e Cineteca, Italia, 2020, 43’

“Pierluì, qui c’è un vuoto di diecine e diecine di metri, che se cadiamo di sicuro ci sbragelliamo a terra!”

Vito Plumari (detto “Il Vecchiaccio”)

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Un commento

  1. Sfugge se qualche imitatore non dotato con la medesima fortuna o abilita’, abbia usato le scarpe da tennis e ci abbia lasciato la vita.

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