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“La montagna non ci ha voluto”, intervista a Tamara Lunger al ritorno dal K2 invernale

La montagna non ci ha voluto. Sono andata con spirito positivo, pensando di poter fare tutto. Invece il K2, dopo la vittoria dei nepalesi, ha detto a me e a tutti gli altri che il nostro posto non era lì”. Tamara Lunger è tornata da qualche giorno in Alto Adige, e sta affrontando a casa, a Cornedo all’Isarco, la quarantena imposta dalle regole per il contenimento del Covid-19.

L’altoatesina non è nuova alle difficoltà e ai pericoli sugli “ottomila” d’inverno. Nel 2016, mentre Simone Moro, Ali Sadpara e Alex Txikon raggiungevano gli 8125 metri del Nanga Parbat per una prima invernale destinata a passare alla storia, Tamara ha ascoltato il suo corpo, ha capito di essere esausta, si è fermata 70 metri più in basso della cima. Un anno fa, sul ghiacciaio dei Gasherbrum, la caduta di Moro in un crepaccio ha provocato alla Lunger delle serie lesioni alla mano, e ha costretto i due alpinisti a rinunciare al loro progetto. Invece di concatenare le due cime, sono dovuti rientrare a Skardu e in Italia.  

Stavolta, dopo la straordinaria prima invernale del K2 da parte di dieci alpinisti nepalesi, i tentativi di salire d’inverno la seconda montagna della Terra hanno visto una successione di tragedie. Dopo Sergi Mingote, sono morti Atanas Skatov, Muhammad Ali Sadpara, Juan Pablo Mohr e John Snorri Sigurjónsson.

Per Tamara Lunger, 34 anni, che nel 2014 aveva raggiunto la cima del K2, questa successione di lutti è stata un incubo, una spinta a interrogarsi su sé stessa e sull’alpinismo. Sono profondamente credente, non ho perso la fede in Dio a causa di queste tragedie. Tutto ha un perché, anche se non lo conosciamo” spiega l’alpinista altoatesina. “Però quello che è successo quest’anno impone uno stop ai miei tentativi invernali sugli “ottomila”. Forse ci riproverò in futuro, ma per ora dico basta”.   

La morte di Sergi Mingote

La serie delle tragedie sul K2 inizia il 16 gennaio, poche ore dopo la vittoria dei nepalesi, con la caduta dallo Sperone Abruzzi del catalano Sergi Mingote. L’ho visto volare, si è fermato a quaranta metri dal campo-base avanzato, dov’ero io. Per un attimo ho avuto paura di vedere il suo corpo in quelle condizioni, poi sono corsa da lui insieme ad altri” racconta la Lunger. Tamara e gli altri alpinisti ai piedi dello Sperone chiamano immediatamente il campo-base, vorrebbero avere un elicottero di soccorso. Ma le ferite, a iniziare da quelle alla testa, rendono subito evidente che per Sergi non c’è più niente da fare. Sono rimasta accanto a lui per un’ora. Gli ho parlato, ho cercato di rendere più sereni i suoi ultimi istanti di vita. Lo choc, terribile, è arrivato più tardi, al campo-base” continua Tamara. Il 17 gennaio, al campo base del K2, i festeggiamenti per la vittoria dei nepalesi si intrecciano con i preparativi per l’evacuazione in elicottero del corpo di Mingote. Tamara partecipa a entrambi i momenti, e deve dare una mano a preparare i bagagli dell’alpinista catalano. “Prima di morire, per me, Sergi era stato come un padre” racconta sull’orlo delle lacrime.

Un nuovo compagno di cordata

I problemi per Tamara Lunger sul K2 iniziano ben prima della morte di Mingote. I rapporti con il rumeno Alex Gavan, che è partito insieme a lei dall’Europa, sono subito difficili. “Abbiamo litigato spesso, gli ho detto che sarebbe stato meglio continuare ognuno per conto suo, poi Gavan ha rinunciato alla salita” ricorda l’alpinista altoatesina. Dopo la morte di Sergi Mingote, l’idea di lasciar perdere e tornare in Italia si affaccia nella mente di Tamara. “I miei genitori non erano mai stati così preoccupati, e mi hanno chiesto più volte di tornare. Poi ho visto nascere dei nuovi progetti e un nuovo entusiasmo, e mi sono lasciata coinvolgere”. 

Nei giorni tra il primo e il secondo tentativo al K2, Tamara Lunger stabilisce un ottimo rapporto con Atanas Skatov, l’alpinista bulgaro. “Un uomo molto spirituale, abbiamo fatto più volte yoga insieme al campo-base”. Soprattutto, si lascia coinvolgere da Muhammad Ali Sadpara, suo compagno di spedizione sul Nanga Parbat, dal cileno Juan Pablo Mohr, detto JP, e dall’islandese John Snorri Sigurjónsson che progettano un nuovo tentativo alla cima. Con JP ci siamo capiti subito, in lui ho scoperto un’anima gemella” continua Tamara Lunger. “La morte di Sergi ci ha unito, ci siamo fatti forza a vicenda, per entrambi è stato importante poter contare sull’altro. Siamo diventati inseparabili, abbiamo pensato a delle spedizioni da fare insieme. La morte di JP mi ha spezzato il cuore”.

Il tentativo di vetta

Il resto, purtroppo, è cronaca. Prima di lasciare il campo-base Tamara sta male, ha problemi di stomaco e dissenteria. Durante la salita non ha forze, nei campi alti non riesce a mangiare. Non è ancora salita oltre i 6600 metri, sa di non essere in grado di tentare la vetta. Alla sua decisione di scendere contribuisce sapere che il campo 4 non c’è, e anche in caso di vittoria occorrerà una lunga discesa al buio.  

Nella tenda del campo 3, Tamara resta in un angolo per non disturbare i preparativi degli altri quattro, poi li vede partire nel buio. Il 5 febbraio attende per ore notizie, ma non arriva nulla. Decide di scendere, dopo aver lasciato un fornello e del cibo pronto per Juan Pablo. 

Mentre si abbassa lungo le corde fisse, riceve la notizia che Atanas Skatov è caduto ed è morto. Nell’ultimo tratto, sul ghiacciaio pianeggiante tra lo Sperone Abruzzi e il campo-base, Tamara si perde insieme a un alpinista irlandese. Poi, mentre Sayed Sadpara rinuncia, e da suo padre Snorri e Mohr non arrivano più notizie, al campo-base e nel mondo iniziano le polemiche. L’alpinista pakistano Nazir Sabir accusa i nepalesi di aver tolto le corde fisse in discesa, Nirmal Purja e gli altri, che ormai sono tornati a Kathmandu, ribattono che le corde ci sono. Io posso raccontare di quel che conosco, e cioè della situazione fino al campo 3. Delle corde fisse non so, ma non riesco a immaginare che i nepalesi possano averle rimosse” prosegue di Tamara. “Più volte sullo Sperone Abruzzi ho visto i chiodi a cui erano ancorate uscire dalle fessure. Era come se il K2 non ci volesse. Però sono sicura che Alì, John e JP sono arrivati sulla cima”.  

Poi la decisione di tornare, il sollievo del padre e della madre quando li informa della sua decisione. A Skardu, Tamara partecipa alla commovente manifestazione in ricordo degli alpinisti scomparsi, che vede migliaia di luci accese nelle case e nelle strade della città. Infine il ritorno, la quarantena, un dolore che non passa. “Ho bisogno di stare in pace, di riflettere, di piangere quando ne ho bisogno. Ora è il momento di dare tempo al tempo”. 

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