Storia dell'alpinismo

Tracce di alpinismo italiano in India, tra pietraie nere e nevi immacolate

Due uomini sul ghiacciaio del Karakorum (Photo Vittorio_Sella  courtesy panopticongallery.com)
Due uomini sul ghiacciaio del Karakorum (Photo Vittorio_Sella courtesy panopticongallery.com)

Un viaggio indietro nel tempo. Che ci porta a quando gli esploratori vestivano di cuoio e lana. Quando i confini tra alpinismo ed esplorazione non c’erano e quelli tra le diverse nazioni asiatiche non erano come li conosciamo oggi. Quando tra le pietraie e le vele di ghiaccio dell’Himalaya e del Karakorum viaggiavano lunghe e costose carovane provenienti dall’occidente, cariche di macchine fotografiche, strumenti scientifici, mappe cartografiche. Ma soprattutto di un’insaziabile sete d’esplorazione.

Siamo tornati, insomma, nel XIX secolo. Fu allora che gli esploratori italiani misero il naso per la prima volta in Himalaya, tra le montagne più alte del mondo. E iniziarono a scoprire quest’imponente catena montuosa che si estende per 2.500 chilometri da ovest a est, tra i corsi d’acqua dell’Indo, del Braldo e del Gange. E che fino ad allora non era mai stata esplorata da vicino, ma ritenuta sacra e inavvicinabile da tutte le religioni locali che, seppur in maniera diversa,  pensavano fosse la dimora degli dei, oltre che delle nevi perenni.

L’allora Great Trigonometric Survey del Survey of India, progetto promosso e sostenuto dalla Gran Bretagna, ebbe il merito di individuare i picchi più alti tramite continui rilievi terrestri e aerei che hanno contribuito a stabilire le altezze di questi giganti e poi incuriosito gli esploratori d’otrecontinente.

Ma i primi esploratori arrivarono qui per gli ottomila. Erano spinti da motivi commerciali, dalla ricerca di passaggi con gli stati confinanti (Nepal, Tibet, etc.) per facilitare i commerci. E frequentavano molto le splendide e affilate montagne del Garhwal, le valli scoscese del Sikkim, le verdi valli del Chumbi (al confine col Tibet) e del fiume Teesta.

Le prime tracce di italiani con aspirazioni alpinistiche nell’Himalaya indiano risalgono al 1878, quando il Duca Giulio Grazioli Lante arrivò nel Kashmir, superò almeno cinque valichi sui cinquemila metri fino al lago Pang-Kong e poi scese nella pianura indiana spingendosi nel Sikkim ai piedi del Kanchenjunga.

Questa però è una storia di exploit personali e occasionali. L’esplorazione, in queste zone, vedeva impegnati pionieri perlopiù inglesi, desiderosi di scoprire le potenzialità economiche della loro colonia. Per farlo, tuttavia, ebbero bisogno della grande tradizione alpinistica ed esplorativa italiana.

Nel 1899 il grande esploratore e fotografo italiano Vittorio Sella effettuò il primo periplo documentato del Kanchenjunga – con i suoi 8.576 metri, la terza montagna più alta della terra – con la spedizione dell’alpinista inglese Douglas William Freshfield.

Erano valdostane, poi, le guide alpine incaricate di accompagnare gli esploratori d’oltralpe nelle regioni più remote dell’Himalaya indiano. Parliamo, per esempio, di Alexis ed Hanry Brocherel, guide alpine di Curmayeur che nel 1907 contribuirono in modo decisivo alla conquista del Trishul ( la montagna a tre punte, 7135 metri), una delle cime più affascinanti del Garwhal Himalaya, durante una campagna esplorativa organizzata dall’inglese Tom Longstaff. Con quella spedizione si stabilì il primato di altezza mai raggiunta dall’uomo fino ad allora, che sarebbe durato per ventitrè anni.

I fratelli Brocherel, nella stessa spedizione, effettuarono anche un tentativo al Nanda Devi (con i suoi 7.820 metri, la montagna più alta della regione) e al Gurla Mandata. Ma non andarono a buon fine.

Quest’esperienza, comunque, fece guadagnare all’allora 33enne Alexis un posto d’onore nella spedizione organizzata due anni più tardi dal duca degli Abruzzi al K2, in Karakorum, dove il giovane valdostano individuò la possibile via di salita sullo sperone sud-sudest, senza poterlo tentare a causa di una pleurite post traumatica dovuta alla caduta in un crepaccio. La sua esplorazione in Himalaya però proseguì nel 1910, quando tentò di salire il Kamet (7.755 metri), altra splendida cima del Garwhal, con la spedizione di Charles Meade.

A parte queste mosche bianche, la zona dell’Everest rimase per tutto l’inizio del XX secolo quasi esclusivamente appannaggio degli inglesi, che allora dominavano l’India.

La sete esplorativa del Bel Paese venne quindi saziata altrove. Per esempio nell’Himalaya occidentale, quello che termina con il Nanga Parbat, a ridosso dell’Indo, prima che inizi il Karakorum. Qui gli inglesi avevano meno interessi commerciali, c’erano migliori condizioni climatiche (l’influenza del monsone è più debole),  non c’erano ancora dissidi politici. L’approccio alle montagne era breve, e consentiva anche a piccoli gruppi di alpinisti di effettuare missioni esplorative che hanno raccolto numerosi successi.

Infatti, già nei primi anni del secolo arrivarono le prime soddisfazioni. Nel 1913 una spedizione italiana conquistò il Kun (7.077 metri), il picco più alto del Ladakh e in generale del tratto di catena himalayana tra il Garhwal e il Nanga Parbat. Fu Mario Piacenza a intascare la più bella salita della zona e dell’alpinismo italiano di allora. Nella stessa spedizione, l’alpinista piemontese effettuò la prima salita del Picco Z3 e, da solo insieme alle guide, fece una pionieristica ricognizione sul massiccio del Kangchenjunga.

Ma quella spedizione fu molto di più. Durata circa quattordici mesi e interrotta dallo scoppio della prima guerra mondiale, produsse una quantità di materiali scientifici (diari, fotografie,  filmati, lettere, reperti storici, rilievi scientifici) ad opera di grandi nomi come quelli di Vittorio Sella (grazie alle sue foto venne collegato il sistema geodetico indiano a quello europeo), Giotto Danielli, Filippo de Filippi, che si spinse fino in Karakorum e completò 17 volumi di risultati scientifici. Materiale tuttora conservato nel Museo della Montagna di Torino, di cui Piacenza fu direttore fino al 1957.

In questa zona, prima dei questi alpinisti-esploratori, gli italiani erano passati solo con i pellegrinaggi dei gesuiti e dei cappuccini, che attraversarono questi passi nel 1700, come raccontato negli scritti di padre Ippolito Desideri.

Avrete notato che finora abbiamo parlato di montagne, e non di nazioni. Perché non è facile definire quale fosse, allora, l’Himalaya indiano. Anzi, allora probabilmente l’India si estendeva fino al Karakorum, se si considera il fatto che il Kashmir, oggi conteso con il Pakistan e la Cina, era allora protettorato inglese con il suo corredo di montagne, compresi i giganti del K2, del Nanga Parbat, dei Gasherbrum, del Broad Peak.

Montagne sulle quali l’Italia ha davvero scritto le pagine più importanti della storia dell’alpinismo, a livello internazionale. Con la storica conquista del K2 (8.611 metri) nel 1954 ad opera della spedizione di Ardito Desio, che arrivò in vetta il 31 luglio con Achille Compagnoni e Lino Lacedelli. Con la splendida prima salita del Gasherbrum IV (7980 metri), intascata nel 1958 da Riccardo Cassin con la spedizione che aveva tra le sue fila Bonatti, Mauri, Gobbi, Oberto, De Francesch, Zeni, Maraini.

Ma l’alpinismo, in questa storia, è solo la punta dell’iceberg. Perché dietro a queste spedizioni dall’altissimo valore sportivo, ci sono carovane di ricercatori, materiali scientifici, studi geografici. Che hanno costruito la storia geografica di queste regioni.

Pensate che negli anni cinquanta esistevano già minuziose cartografie della zona, paragonabili a quelle disponibili per le Alpi: tutto grazie all’esplorazione italiana, che se in Himalaya è stata piuttosto sporadica, qui è regolare, metodica, scientifica. Soprattutto nell’area del Baltoro.

Il difficoltoso avvicinamento alle montagne, complicato da gole strettissime, valichi in alta quota,  strade a picco sui dirupi, non fermò l’esplorazione italiana che nel Kashmir aveva avuto le prime avvisaglie nel 1850 con i viaggi del marchese Osvaldo Roero di Cortanze, proprietario di vaste piantagioni di the, che visitò Ladakh, Turkestan cinese, Valle dell’Indo, Gilgit, Kashmir e Baltistan.

Ma la prima della serie di spedizioni prettamente scientifiche che videro protagonisti gli italiani è quella di Martin Conway del 1892. La spedizione, sulle tracce di Henry Haversham Godwin-Austen che nel 1861 diede il nome al ghiacciaio, aveva come obiettivo rilevare la geografia  Karakorum, e dovette il suo successo alla celebre guida italiana di Macugnaga Mattia Zurbriggen.

Le guide valdostane furono invece protagoniste delle spedizioni dei coniugi americani Fanny Bullock Workman e William Hunter Workman. Tra il 1898 e il 1912 attraversarono ghiacciai, valichi e cime secondarie, stabilendo i rapporti tra i bacini della zona. Con loro è stato anche il topografo Cesare Calciati che misurò le valli Hushe, Hispar, Kondus e Siachen.

Le prime spedizioni del tutto italiane in Karakorum si svolgono tra il 1909 (data della prima storica spedizione del Duca degli Abruzzi con Vittorio Sella) e il 1929. Si può dire che il loro fulcro fosse la macchina fotografica, utilizzata a livello quasi maniacale per documentare scientificamente tutto ciò che si incontrava, ad utilità dei ricercatori e degli alpinisti.

Il Duca nel 1909 tentò il K2 senza risolvere la parete sulla cresta sud est, che però conservò il suo nome. Poi si rivolse al Bride Peak o Chogolisa Kangri (7654 metri) arrivando a 150 metri dalla vetta e siglando un record di altezza raggiunta, che durò per 13 anni fino al tentativo inglese dell’Everest del 1922.

Nel 1929 il Duca di Spoleto sulle orme dei Sabaudo esplorò la valle di Shaksgam passando dal passo Mustagh. Nel 1930 Dainelli rimontò il Ghiacciaio Tarim Sher verso il Ghiacciaio Rimu attraverso il Passo Italia di 6096 metri completando le vaste rilevazioni di De Filippi della spedizione di Piacenza del 1913.

Ma tutto si interruppe negli anni quaranta, con la seconda guerra mondiale. E con la guerra del Kashmir, che nel 1947 diede inizio alle dilanianti battaglie e contese per il dominio di questo territorio e ribaltò i confini della regione spartendola tra Cina, India e Pakistan e precludendo agli esploratori parte di questi ghiacciai, di queste cime e valli.

Le spedizioni, eccezion fatta per la grande spedizione alpinistico-scientifica di Desio al K2 nel 1954 – che resta forse la più grande pagina di successo di spedizione alpinistico-scientifica mai realizzata – iniziarono a prendere una piega più alpinistica, più sportiva. Inglesi, francesi, tedeschi, americani, ovviamente italiani e scalatori di molte altre nazioni iniziarono a venire in Himalaya e Karakorum per gloria nazionale, per merito sportivo personale. Ma sempre con il gusto dell’esplorazione, che rimane il sale dell’alpinismo.

Oggi l’India comprende un terzo della catena himalayana e nessun ottomila ad eccezione del versante est del Kangchenjunga. Conserva nel suo cuore i settemila tra più affascinanti – per estetica e difficoltà tecnica – di tutta la catena, uno su tutti lo Shivling. Montagne che però, mai come altrove, conservano un’aura sacra e spesso non sono accessibili agli alpinisti d’oltrecontinente.

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Un commento

  1. In un punto del testo di questo mirabile resoconto di cui ringrazio vivamente, si legge che:
    “Parliamo, per esempio, di Alexis ed Hanry Brocherel, guide alpine di Curmayeur che nel 1907 contribuirono in modo decisivo alla conquista del Trishul ( la montagna a tre punte, 7135 metri), una delle cime più affascinanti del Garwhal Himalaya, durante una campagna esplorativa organizzata dall’inglese Tom Longstaff. Con quella spedizione si stabilì il primato di altezza mai raggiunta dall’uomo fino ad allora, che sarebbe durato per ventitrè anni.”

    Subito dopo si legge: “l Duca nel 1909 tentò il K2 senza risolvere la parete sulla cresta sud est, che però conservò il suo nome. Poi si rivolse al Bride Peak o Chogolisa Kangri (7654 metri) arrivando a 150 metri dalla vetta e siglando un record di altezza raggiunta, che durò per 13 anni fino al tentativo inglese dell’Everest del 1922.”

    Alla luce di quanto sopra si evince che il record di altezza dei Brocherel durò solo due anni (dal 1907 al 1909 anno della spedizione del Duca degli Abruzzi) e al massimo sarebbe potuto durare 15 anni (dal 1907 al 1922 anno della spedizione inglese all’Everest) e non 23.

    Due piccoli insignificanti errori in un testo comunque esemplare.
    Cordiali saluti

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