Auguri Reinhold! Messner compie 80 anni e guarda lontano. L’intervista esclusiva
Una lunga conversazione a 360° con il re degli Ottomila. Che guarda lontano, alla faccia dell’età. Perché non ci sono più gli ottantenni di una volta
C’è molta vita e c’è moltissimo entusiasmo negli 80 anni che Reinhold Messner festeggia oggi, martedì 17 settembre. Ma gli ultimi mesi, per lui, non erano stati facili.
A gennaio le riflessioni di Messner sulla morte hanno fatto pensare ai suoi amici e ai suoi follower che avesse dei problemi di salute, poi è venuto alla luce il cattivo rapporto con i figli, ai quali aveva ceduto i suoi amati musei. Una situazione dolorosa, e che ha creato delle serie difficoltà economiche al padre. Invece, a parlare della sua vita con Reinhold, si scoprono la stessa voglia di futuro, la stessa fucina di progetti e di idee che travolgeva l’ascoltatore dieci, venti o trent’anni fa.
L’ultimo libro, La mia vita controvento, è appena arrivato in libreria edito da Corbaccio. C’è un nuovo museo in arrivo sul Monte Elmo di Sesto. C’è un nuovo film nel quale Messner racconta a modo suo la prima ascensione del K2. C’è una lunga lista di viaggi, di spedizioni e di sogni. C’è anche, anzi ha un ruolo centrale, un amore sbocciato da poco. Con la tedesca Diane Schumacher, che ha trentasei anni meno di lui.
Lei ha salito per primo i 14 “ottomila” della Terra, ha traversato il deserto di Gobi a piedi e l’Antartide sugli sci. Se non è stato dappertutto ci manca poco. C’è ancora qualche luogo dove sogna di andare?
Sono vent’anni che tengo d’occhio la montagna più bella del mondo. Il Machapuchhare, 6993 metri, nell’Himalaya nepalese a poca distanza dall’Annapurna. Ha una forma elegantissima, viene fotografata da trekker e turisti, è sacra per i fedeli indù della zona, e per questo motivo non è mai stata salita. La spedizione britannica diretta da Wilfrid Noyce, nel 1957, si è fermata più in basso, senza calpestare la cima.
E lei sul Machapuchhare vorrebbe rompere il tabù, e arrivare a calpestare la vetta?
Assolutamente no. Vorrei individuare una Kora, un anello da percorrere a piedi intorno alla montagna. E’ un modo di pregare diffuso tra i buddhisti, la Kora del Kailas, la montagna sacra del Tibet, viene percorsa da migliaia di fedeli ogni anno. Io però ho esplorato a lungo le valli intorno al Machapuchhare e non sono riuscito a trovare un percorso. E’ tutto troppo ripido e selvaggio. La Kora forse non è possibile, mi sta bene così”.
L’estate del 2024, in Italia e nel mondo, ha riportato sotto i riflettori il K2 e la spedizione del CAI, diretta da Ardito Desio, che lo ha salito per la prima volta settant’anni fa. C’è ancora spazio per un vero alpinismo sugli “ottomila”?
Le spedizioni commerciali, con i clienti in fila con bombole e respiratori e gli sherpa e i pakistani che attrezzano la via fino in vetta sono turismo organizzato, non alpinismo. Ma qualcuno riesce a fare lo stesso delle cose importanti. E il caso del francese Benjamin Védrines, che a luglio ha salito il K2 in 11 ore dalla base, e poi è sceso a valle in parapendio.
Non esistono solo gli “ottomila”, però…
E’ vero, e infatti le vette di 6000 o 7000 metri dell’Himalaya e del Karakorum sono piene di pareti da salire. Lo stesso vale per la Groenlandia, dove Matteo Della Bordella e i suoi compagni hanno aperto da poco una via eccezionale.
Torniamo per un momento al K2. La vittoria del 1954 è stata una grande spinta per l’Italia del dopoguerra, ma è stata seguita da decenni di polemiche astiose. Lei cosa pensa di quel che è avvenuto a 8000 metri tra Compagnoni, Lacedelli e Bonatti?
Ho appena finito di girare un film sulla fase più delicata della spedizione del 1954. L’ho consegnato al Club Alpino Italiano, che lo inserirà in un lavoro più ampio. Il mio contributo sarà uno sguardo dall’esterno, da chi osserva quella vicenda dal mondo alpinistico di lingua tedesca.
Ci può anticipare i suoi giudizi?
Una cosa dev’essere detta con forza. La prima ascensione del K2, 8611 metri, è stata una vittoria per tutti gli alpinisti del mondo. Le polemiche degli anni successivi sono state una storia quasi solo italiana. In Germania non le ha mai seguite nessuno.
Lei però ha il passaporto italiano…
E’ vero, e infatti da italiano ricordo che la vera polemica non è scoppiata tra gli alpinisti. A farla diventare cattiva, e a farla arrivare in tribunale è stato un giornalista, Nino Giglio, nel 1964.
Nello scorso gennaio lei ha postato sui social dei pensieri sulla morte, e molti hanno pensato “Messner sta male!” Era vero?
Stavo, e sto, benissimo. In quei giorni ero a Varanasi, la città sacra sul Gange, in India, dove molti indù vanno a morire. Un luogo dove si pensa moltissimo alla morte.
Pensiamo alla vita, allora. Lei è stato un simbolo di libertà e di avventura per generazioni di appassionati di natura e montagna. Crede che riuscirà a esserlo ancora in futuro?
Spero proprio di sì, finché avrò voglia di salire in aereo e di andare in giro per il mondo a esplorare, a ragionare e a raccontare. Sono appena tornato da conferenze in Polonia e in Georgia, ho incontrato migliaia di persone. A breve andrò in Cina, e poi a Chicago. Sul palco, accanto a me, cerco sempre di avere dei forti alpinisti locali.
Nelle sue conferenze, nei suoi film e nei libri (“La mia vita controvento”, se non sbaglio, è il numero 75 della serie, lei si è sempre rivolto sia agli alpinisti sia al grande pubblico. Riesce a farlo anche adesso?
Sì, le mie serate sono aperte a tutti, e attirano persone di ogni tipo. Per il grande pubblico il messaggio principale è l’importanza di conservare la wilderness, la natura selvaggia. A chi conosce da vicino vette e pareti spiego l’importanza dell’alpinismo tradizionale, quello senza corde fisse e senza bombole di ossigeno. Quello che ho imparato da Albert F. Mummery, da Riccardo Cassin, da Walter Bonatti e da altri. Quello che ho praticato tutta la vita.
Secondo lei chi ascolta le sue conferenze riesce a capire i suoi messaggi?
Credo proprio di sì. Li capiscono gli alpinisti, ma li capiscono anche i giovani che scoprono per la prima volta le montagne e che imparano che bisogna avere un rapporto leale con la natura. Nelle scorse settimane, insieme a mia moglie Diane, ho portato in Alto Adige dei gruppi di ragazzi tedeschi che altrimenti non avrebbero mai visto da vicino le Alpi. E’ una cosa che mi rende orgoglioso.
Per le sue iniziative, lei ora usa la sigla Messner Mountain Heritage. Che fine hanno fatto i Messner Mountain Museum, a cui si è dedicato per trent’anni?
Cinque anni fa li ho donati ai miei figli, ed è stato un errore. Loro non hanno capito l’importanza del mio dono, e non hanno apprezzato la mia generosità. Poi la mia ex-moglie mi ha buttato fuori di casa, non è stato un momento facile. L’incontro con Diane è arrivato solo più tardi. Non vorrei parlare ancora di queste cose dolorose.
Sesto, Sexten in tedesco, in Val Pusteria, oggi è celebre perché è il paese di Jannik Sinner. Più in alto, tra gli impianti di risalita e le piste del Monte Elmo, c’è il cantiere del suo nuovo museo. Quando riuscirete a inaugurarlo?
Speravo di farcela nelle prossime settimane, in autunno, invece apriremo nella prossima primavera. Non sarà un museo, piuttosto uno spazio aperto e interattivo, dedicato all’avventura e all’alpinismo, ma anche all’ambiente e ai problemi delle Alpi e delle altre montagne del mondo. A iniziare, naturalmente, dal cambiamento climatico. Ci rivedremo tra qualche mese!