In cordata

Back to the future: quant’era bella Cortina ’56

Pochi mezzi e tanto genuino entusiasmo. Le prime Olimpiadi invernali “italiane” segnarono l’avvio di una stagione felice e anche per questo sono ricordate con nostalgia

Grandina sulle Olimpiadi. Non è un evento meteorologico, ma mediatico. E siccome grandina tanto, siamo tutti esposti, pure io che mi ero ripromesso (più per stanchezza che per amor patrio) di non tornare sull’argomento. E invece eccoci qui ancora a parlare di Milano-Cortina 2026, le Olimpiadi invernali che ora come ora, a livello di percezione, peggio non potrebbero andare. Nell’ultima settimana abbiamo visto una puntata di Report (19 maggio, chi non l’ha vista la può recuperare su Raiplay) in cui l’agguerritissima giornalista Claudia De Pasquali letteralmente fa a pezzi il masterplan generale delle Olimpiadi, andando a rivelare per ogni località quanto si discosta il dossier della candidatura presentato al Cio dallo stato attuale degli appalti. Non parliamo solo della famigerata pista di bob di Cortina, di cui ricordiamo i costi, saliti dai 47 milioni di euro del possibile restauro ai 118 milioni del completo rifacimento, a cui bisogna aggiungere una stima di 1,5 milioni annui di manutenzione (a favore di soli 59 praticanti italiani). Ma parliamo anche degli impianti di Bormio e Livigno, di Anterselva, di Predazzo, di Tesero, saliti di costo da due fino a dieci volte, fino al paradosso dello stadio del ghiaccio di Baselga di Piné, finanziato ma poi stralciato dalle Olimpiadi. E ancora le opere infrastrutturali, le varianti stradali sulla statale Alemagna (finanziate con 250 milioni per risparmiare due minuti di percorrenza), la circonvallazione di Cortina, la bretella ferroviaria di Mestre, e persino un inutile viadotto sul passaggio a livello di San Candido. Tutte opere che gli ottimisti definiscono legacy, i realisti devastazione. Le “Olimpiadi della sostenibilità economica e ambientale”, slogan con cui il Coni ha convinto il Comitato olimpico internazionale, sono diventate secondo la definizione di Report le “Olimpiadi dello sforo”. 

Appena tre giorni dopo la trasmissione, ecco la seconda grandinata: gli uffici della Fondazione Milano-Cortina sono perquisiti dalla Guardia di Finanza, le ipotesi di reato vanno dalla turbativa d’asta alla corruzione, indagati l’ex ad Vincenzo Novari e altri dirigenti. Quello che personalmente più mi turba, è la notizia che anche il logo olimpico, quel delicato “26” tracciato nella neve, avrebbe vinto grazie a un televoto guidato, una truffa insomma. Ma come? Ma perché? Quel logo dovrebbe simboleggiare proprio la sostenibilità, la mitigazione dell’impatto dell’uomo sulla natura, in un’impronta destinata a sciogliersi con il sole. Invece ora, a evaporare, non è la nostra impronta, ma i soldi pubblici. Bruttissima storia.

Un’eredità preziosa, che non andrebbe sprecata

Fra un anno, un anno e mezzo, torneremo a parlare di sport, di valori olimpici, di neve. Speriamo. Per ora possiamo consolarci pensando un po’ nostalgicamente al passato, a quelle Olimpiadi invernali del 1956 che hanno rilanciato il nome di Cortina e delle Dolomiti nel mondo. La guerra era finita da poco più di un decennio, l’Italia era ancora un paese depresso, segnato dalle distruzioni, e i pochi cantieri di Cortina diventarono un simbolo della ricostruzione, della rinascita nazionale: lo stadio del ghiaccio fu costruito tra il 1955 ed è ancora in funzione, la pista Monti (che non si chiamava ancora così) e il trampolino di salto erano già esistenti dal 1923 ed ebbero bisogno solo di lavori di ammodernamento. La torcia olimpica scese per la pista Olimpia il 26 gennaio 1956, giorno dell’inaugurazione, portata da Zeno Colò; il giuramento olimpico, prima volta nella storia, fu pronunciato da una donna, la sciatrice Giuliana Minuzzo. Il medagliere degli italiani non fu entusiasmante, solo un oro e l’ottava posizione nella classifica dei Paesi, mentre tutti e tre gli ori per lo sci maschile andarono all’austriaco Toni Sailer. Ma l’evento fu un successo planetario, che ancora si riverbera sull’Ampezzano.

E il logo? Be’, allora questo linguaggio marketing non c’era, tempi fortunati, e si chiamava stemma. L’aveva disegnato l’artista milanese Franco Rondinelli e rappresentava un fiocco di neve stilizzato, che racchiudeva i cinque cerchi e una rappresentazione delle Dolomiti (il Cristallo?). Il poster dello stemma fu riprodotto in 11mila esemplari, una tiratura davvero irrisoria. Un altro celebre manifesto olimpico era invece opera del savonese Mario Bonilauri, un grafico pubblicitario dal tratto gioiosamente futurista: rappresentava la torcia olimpica sullo sfondo delle Dolomiti, impugnata da quello che nelle intenzioni dell’artista doveva essere un guanto da sci e invece sembrava un pezzo di armatura medievale. 

Infine, per cedere del tutto alla nostalgia, facciamo un giro su YouTube, dove troviamo il film ufficiale dell’Istituto Luce per i VII Giochi olimpici invernali: si intitola Vertigine bianca, dura un’ora e mezza e ritrae una Cortina ancora rurale, case scaldate dal fuoco di legna, l’autunno che già sa di ghiaccio e neve. Lontanissimi, inimmaginabili, i giorni del cambiamento climatico e degli scandali politico-finanziari. Olimpiadi allora davvero sostenibili, ma non per le buone intenzioni degli uomini, non illudiamoci: solo per povertà. 

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