Alpinismo

Vielmo e Valentini raccontano il tragico ”circo” dello Shisha Pangma

La gara suicida tra le due alpiniste americane, ossigeno usato a partire dai 6.000 metri, corde fisse non piazzate per risparmiare tempo, i diktat delle agenzie. La testimonianza dei due, esperti, alpinisti italiani che erano sul posto

“Non era una montagna, era un circo!” Sono passati cinque giorni dalla valanga che ha ucciso due alpiniste americane e due Sherpa sullo Shisha Pangma, tre da quando Mario Vielmo e Sebastiano Valentini sono tornati al campo-base, e hanno saputo che le autorità cinesi avevano ordinato a tutte le spedizioni di smontare i loro campi e di ripartire per il Nepal.

Da mercoledì Sebastiano e Mario sono a Kathmandu. La rabbia per aver dovuto rinunciare (e buttare un bel po’ di dollari) diminuisce, il dolore per aver assistito a distanza alla morte di quattro alpinisti rimane. Soprattutto, sullo Shisha, i due italiani si sono sentiti fuori posto. Due naufraghi di un modo di andare in montagna del passato, cancellato da un assalto simile a una gara di corsa.

“Ho alle spalle decine di spedizioni, ho salito 13 “ottomila”, la mia prima avventura sul Dhaulagiri risale a venticinque anni fa” racconta Mario Vielmo. “C’era poca gente, c’erano grandi alpinisti come Ed Viesturs, Alberto Iñurrategi e Chantal Mauduit, che su quella montagna ha perso la vita”.

“Gli Sherpa erano pochi, e di fatto erano ancora dei portatori d’alta quota. Ora è cambiato tutto, gli Sherpa sono diventati guide, e molti clienti sono giovanissimi che non sanno nulla di montagna, ma vogliono diventare famosi grazie ai soldi di papà o ai social”, prosegue l’alpinista di Lonigo. “La cosa più impressionante, però, è stata la scelta degli Sherpa di salire nonostante le condizioni pericolose”.

Riprendiamo il racconto dall’inizio. All’inizio di luglio Mario Vielmo, guida alpina della provincia di Vicenza, arriva in cima al Nanga Parbat, il suo tredicesimo “ottomila”. Dopo qualche settimana di incertezza, quando il governo cinese e le agenzie di Kathmandu annunciano la riapertura dei confini del Tibet, decide di tentare di completare la collezione sullo Shisha Pangma. Lì, nel 2004, ha raggiunto la Vetta centrale, 8008 metri, ma non il punto più alto.


Mario decide di partire, coinvolge l’amico trentino Sebastiano Valentini, l’11 settembre i due sono a Kathmandu. Segue una dura trattativa con la Seven Summits Treks, una delle più importanti agenzie nepalesi. Sui soldi gli italiani riescono a ottenere uno sconto, 28.000 dollari invece di 35.000 a testa. C’è poco da fare invece sulla data, perché la partenza per il Tibet avviene solo il 25.

“L’agenzia voleva aspettare gli altri alpinisti e gli Sherpa che arrivavano dal Cho Oyu e dal Manaslu, ormai si vendono spedizioni in cui si sale più di un “ottomila””, spiega Vielmo. Nel briefing, i rappresentanti della Regione autonoma del Tibet informano che ogni alpinista dev’essere accompagnato da uno Sherpa, e che oltre quota 7000 è obbligatorio usare respiratori e bombole. I due italiani vogliono salire in stile alpino e senza ossigeno, ma nessuno controlla.

Nei primi giorni sulla montagna tutto sembra andare per il meglio. Mario e Sebastiano si abituano alla quota, salgono una cima di 6300 metri, poi raggiungono il campo I con otto ore di salita, prima sulla morena e poi sul ghiacciaio. Sullo Shisha ci sono pochi alpinisti, e uno di loro è l’esperto Sanu Sherpa, che ha all’attivo 40 spedizioni riuscite agli “ottomila”.

Nei primi giorni di ottobre sullo Shisha Pangma nevica. In alto soffia vento forte, che accumula e rende ancora più pericolosa la neve. Al campo base non ci sono problemi, oltre i 6400 metri del campo I lo strato supera il mezzo metro. Mario e Sebastiano parlano con Sanu, suggeriscono di salire a sinistra della via normale, sull’itinerario aperto da Iñaki Ochoa, più lunga ma più sicura, che sale per un costone roccioso.

Invece, il 4 ottobre, Sanu Sherpa e la sua cliente giapponese salgono verso il campo II per la normale. “In quel tratto il pendio si impenna per due volte, in due gradini a 35/40 gradi”, racconta Valentini. “Sul primo gradino Sanu ha staccato un lastrone largo 300 metri, i due sono stati spazzati via, per fortuna sono riemersi senza danni. Era un segnale importante, ma è stato ignorato”.

Nei primi giorni di ottobre, arrivano al campo-base dello Shisha Pangma i team di Imagine Nepal, Seven Summit Treks, Elite Exped e Climbalaya Treks, reduci dal Manaslu e dal Cho Oyu. Anche se le condizioni sono cattive, anche se il vento in alto è fortissimo, gli Sherpa decidono di ripartire dopo una sola giornata. Due cordate restano al campo-base solo una notte, e l’indomani ripartono per la cima.

Il motivo della fretta è la competizione tra due donne, Anna Gutu e Gina Marie Rzucidlo, in competizione tra loro per diventare la prima statunitense a salire tutti i 14 “ottomila”. La prima è guidata da Mingmar Sherpa, l’altra dall’espertissimo Tenjen Lama Sherpa, fresco reduce dall’ascensione di tutti gli “ottomila” insieme a Kristin Harila.


“Gina Marie e Tenjen Lama erano in vantaggio, poi Anna Gutu e Mingmar hanno recuperato, anche perché la cliente ha iniziato a usare il respiratore già al campo I” racconta Sebastiano. “Salivano di corsa, sembravano in trance agonistica, sembrava la Dolomiti Sky Race, non l’ascensione di un “ottomila”. Per non perdere tempo non hanno nemmeno piazzato corde fisse”.

Poi l’inevitabile accade. Sul ripido pendio finale, a circa 7800 metri, una valanga travolge Gutu e Mingmar Sherpa. Sembra che Tenjen Lama voglia tentare un soccorso, ma la Rzucidlo lo convince a proseguire. Poi si stacca la seconda valanga, anche Tenjen Lama e Gina Marie sono travolti, gli Sherpa che seguono si trasformano in una spedizione di soccorso. Non serve, e alcuni Sherpa, nel tentativo di salvare gli amici, si feriscono e devono essere evacuati a loro volta.

“Noi dopo due notti al campo I siamo scesi, c’era troppa neve e il vento in alto era fortissimo, non avrebbe permesso di salire. Abbiamo saputo della tragedia quando siamo arrivati al campo-base” racconta Mario Vielmo, che ha segnato su una foto i luoghi delle due valanghe che hanno travolto le due cordate di testa.

Il pensiero va al 28 luglio scorso, quando sul K2 i team delle agenzie americane ed europee hanno rinunciato per le condizioni pericolose della neve, e quelli delle agenzie nepalesi hanno proseguito fino in cima. Quella volta Nirmal Purja, Tenjen Lama e i loro colleghi hanno avuto ragione, sullo Shisha Pangma è finita in un altro modo.

Prima di partire, Mario e Sebastiano erano stati informati che, in caso di incidenti, le spedizioni sarebbero state fermate. “Ci era successo già nel 2018, quando nella parte alta della montagna scomparve il bulgaro Bojan Petrov”, racconta Mario Vielmo, che in quel momento era al campo III con Valentini.

“Nel 2018, su pressione della Bulgaria, le autorità di Pechino e di Lhasa hanno autorizzato l’ingresso di elicotteri di soccorso dal Nepal. Petrov non è stato trovato, e anche allora lo Shisha Pangma è stato chiuso. I cinesi non amano fare brutte figure davanti al mondo”, concludono Vielmo e Sebastiani, che dovranno attendere qualche giorno prima di ripartire da Kathmandu. Resta nella capitale del Nepal la norvegese Kristin Harila, che vorrebbe partire per lo Shisha Pangma per recuperare il corpo del suo amico Tenjen Lama. Sembra una speranza tenue.

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