Evgeniy Glazunov, il siberiano che scalava in solitaria perché le spedizioni erano troppo costose
Il 30 dicembre 1987 nasceva il fortissimo scalatore russo scomparso la scorsa primavera sul Monte Ak-su, nel Pamir. Con lui abbiamo dato uno sguardo allo stato dell’alpinismo in Russia. Rileggiamo la sua ultima intervista
Lo scorso mese di febbraio, Evgeniy Glazunov, 35 anni e originario della Siberia, moriva scendendo dal Monte Ak-su nel Pamir. Con lui se ne andava uno scalatore fortissimo, che qualche modo incarnava lo spirito romantico dell’alpinismo esplorativo. Pochi mesi prima della tragedia, Glazunov ci aveva rilasciato un’interessantissima intervista. Rileggiamola ora
Quando è scoppiato l’amore per la montagna e l’alpinismo?
Sono nato e cresciuto in Siberia, vicino al lago Bajkal, a due o tre ore di auto dalle montagne. Ma ci sono andato per la prima volta solo all’età di 14 anni, nel 2002. Profondamente affascinato da questo ambiente e dal senso di libertà che trasmetteva, ho subito capito che questo doveva diventare il mio mondo e, per quanto possibile, la mia occupazione. Negli anni ho letto e riletto tutti i libri di alpinismo a me disponibili, cercando di assorbire quante più informazioni possibile. C’è stato un periodo, ricordo, in cui non riuscivo a pensare ad altro che non fosse l’arrampicata: tutto il resto passava in secondo piano.
Ci sono alpinisti del passato o del presente che stimi particolarmente e ai quali ti ispiri?
Sono stato molto colpito dal libro di Doug Scott “Ogre, il settemila impossibile”, soprattutto quando in seguito sono riuscito a recarmi sotto questa cima e a vederla con i miei occhi. Ho letto molto sull’himalaismo polacco e sulle prime ascensioni di nuove vie agli 8.000, anche in inverno, da parte dei polacchi. Degli alpinisti russi di “vecchia” generazione mi piace lo stile di Alexander Ruchkin, di Dmitry Pavlenko e di Pavel Shabalin. Considero la salita della parete nord del Khan Tengri (6.995 metri) fatta in stile alpino dal duo Pavel Shabalin e Ilyas Tukhvatullin, la migliore del periodo post-sovietico.
Come descriveresti il tuo alpinismo?
Il mio alpinismo è libertà e creatività, un tentativo di catturare la forma ideale, l’acclimatazione ideale e le condizioni ideali per poi convogliarle nella salita, lanciandosi verso la meta nel modo più semplice possibile e nel minor tempo possibile.
Molte delle tue ascese sono in solitaria. Come mai? È sempre stato così?
No, non è sempre stato così. Per molto tempo ho considerato la scalata in solitaria “non normale”, perché i compagni più esperti, della vecchia scuola, la pensavano in quel modo. A loro, semplicemente, era stato insegnato così e non si ponevano domande. Ai tempi, nel nostro Paese, una solitaria poteva significare l’allontanamento dall’alpinismo. Molti scalavano in solitaria ma lo tenevano in segreto. Con gli anni e l’esperienza, ho rivisto il mio atteggiamento: ora i progetti in solitaria mi entusiasmano e mi ispirano, mi sento a mio agio da solo sulla via, ma anche con un compagno se è forte e guarda le montagne come le guardo io. Purtroppo, di partner di questo tipo ce ne sono pochi e spesso capita che sia più facile andare in solitaria che trovare un compagno. Soprattutto se le risorse per il progetto sono scarse.
Quale strada persegue, a tuo parere, l’attuale alpinismo russo?
Mi sembra che in Russia non si capisca quale sia il percorso dell’alpinismo. Qui tutto è inserito in un quadro, regnano formalismo e burocrazia. Per i giovani è difficile sfondare il “muro di cemento” dell’incomprensione e molti talenti vengono abbandonati, a volte all’apice della loro forma. Credo che in futuro non ci si debba aspettare dalle squadre russe ascensioni grandi e difficili salite di cime di 6000-7000 metri, perché non ci sono quasi più team che ambiscano a questo. I singoli alpinisti, ovviamente, cresceranno e faranno le loro personali salite, ma il sistema di formazione degli atleti, ahimè, è andato perso negli ultimi 15 anni. Parlando a me stesso, sì, mi piacerebbe davvero trovare l’opportunità di scalare anche montagne di 8.000 metri, ma questo richiede un sostegno costante da parte degli sponsor e non è semplice. Attualmente sto cercando un’opportunità per viaggiare in Pakistan, Nepal e altre zone, per raggiungere tali altezze. Finora il mio limite altimetrico è stato di 7.500 metri, e ho fatto ascese tecnicamente difficili intorno a quota 7.000 in Kirghizistan.
Ci racconti qualcosa della tua ultima salita in solitaria nel massiccio caucasico del Chaukhi?
In realtà la via è stata individuata dal mio amico Gia Tortladze, che vive in Georgia. Volevamo farla insieme, ma lui si è ammalato e non è potuto venire. Così sono andato da solo. Non è stata la salita più difficile della mia vita, rimane comunque un’ascensione su una linea completamente nuova, così dice “Gia”, e io gli credo. Mi ha dato un grande piacere.
Dopo due settimane sono riuscito a salire il Kazbek (5033 metri) dal villaggio di Kazbegi: andata, cima e ritorno in un giorno. Proprio ieri sono tornato dall’Ushba (4710 metri), dove in solitaria e in 13 ore ho salito e disceso la via di Gabriel Khergiani. Dicono che io sia stato il più veloce di sempre.
Cosa pensi di ciò che sta accadendo sugli 8.000 metri, affollati dalle spedizioni commerciali?
Penso che se mai andrò sugli 8.000, non userò l’ossigeno, i servizi degli sherpa e, se possibile, cercherò di evitare la folla. Altrimenti, tutto ciò che accade può essere semplicemente chiamato turismo di montagna, ma non alpinismo. E a questo non sono interessato.
C’è ancora spazio per aprire nuove vie sugli 8.000?
Sì, sono molto interessato a questo argomento, sto cercando delle opportunità. Oltre all’apertura di nuove linee, sogno di salire tutte le 14 cime senza ossigeno e il più velocemente possibile. Per ora, purtroppo, sono molto lontano da questo obiettivo.
Articolo già pubblicato e aggiornato dalla redazione di Montagna.tv il 20 dicembre 2024