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“L’invenzione del Terminillo”. A Rieti una mostra da non perdere

La “Montagna di Roma” ha una storia recente. Ma curiosa, interessante e per molti versi sconosciuta. Vale la pena ripercorrerla tra curiosità e riferimenti storici e sociali ancora attuali

Il Lazio, anche se non tutti lo percepiscono immediatamente, è anche una regione di montagne. Dal Gorzano, la cima più alta, si prosegue verso il Monte Viglio e la Meta, il Pizzo Deta e l’Autore, le vette delle catene più vicine al Tirreno. La definizione “Montagna di Roma”, però, è stata applicata per quasi un secolo a un unico massiccio.

Il Terminillo, le Tetricae horrentes rupes di Virgilio, una cima che nelle giornate si staglia a nord nel cielo dell’Urbe. Le sue creste, a tratti tormentate e rocciose, separano in realtà la conca di Rieti dalla valle del Velino, dove oltre duemila anni fa è stata tracciata la via Salaria.

Fino al 1861 la montagna separa lo Stato Pontificio dalle Due Sicilie, poi entra nel Regno d’Italia. Qualche anno più tardi, dopo la Breccia di Porta Pia, i soci del Club Alpino Italiano iniziano a esplorare il Terminillo palmo a palmo.

Uno di loro, il romano Enrico Abbate, compie le prime ascensioni di creste che hanno in questa stagione storica il carattere di una vera e difficile salita alpina. “Se Leonessa fosse in Svizzera, il paese si rimodernerebbe, sorgerebbero alberghi, comode diligenze percorrerebbero ampie strade trasportando continuamente touristes”, scrive.

Il “turista” che cambia il Terminillo arriva a Pian de’ Valli nel gennaio del 1932. Si chiama Benito Mussolini, lo accompagnano i figli Bruno e Vittorio, la moglie Rachele e la guida Orlando Rossi. Il gruppo si ferma tre ore nella Capanna Trebiani, nessuno calza gli sci, secondo un testimone donna Rachele prepara personalmente i panini alla scorta. Quando riparte, Mussolini esclama “tornerò in automobile!”. Lo farà.

In quegli anni i desideri del Duce sono legge, e alla fine del 1933, la strada arriva ai 1200 metri del Pian di Rosce. L’anno dopo il tracciato è completato fino a Pian de’ Valli e a Campoforogna. Nel 1936 s’inaugurano i primi alberghi, poi tocca alla funivia del Terminilluccio.

Nel dopoguerra, negli anni ruggenti della “Dolce vita”, agli sciatori arrivati da Roma, dal Lazio e dalla vicinissima Umbria si affiancano attori, soubrette e politici. Poi arriva la crisi, causata dalla scarsità di materia prima, la neve, e dalle nuove autostrade abruzzesi, che rendono Campo Felice e Ovindoli più vicine al Raccordo Anulare rispetto a Pian de’ Valli.

La storia del Terminillo, fino a oggi, è stata raccontata pochissimo. Tra i motivi la mancanza di grandi pareti di roccia (che invece ci sono sul Gran Sasso), o di una fauna straordinaria come quella dei monti del Parco d’Abruzzo, Lazio e Molise. In un’Italia che non sa ancora gestire il difficile rapporto con il Fascismo, pesa il ruolo che Benito Mussolini ha avuto nel trasformare il Terminillo e farne una destinazione turistica.

Per questo motivo, ci sembra opportuna e preziosa la mostra “L’invenzione del Terminillo, Rieti e la Montagna di Roma”, a cura di Alfredo Pasquetti e Daniele Scopigno, che ha aperto lo scorso 23 settembre, e che può essere visitata fino a gennaio nell’Archivio di Stato di Rieti, in Viale Canali 7, a pochi minuti a piedi dal centro, appena all’esterno delle mura medievali della città.

“L’immagine della “Montagna di Roma” è attestata nei documenti, ed è speculare a quella di Ostia, il “Mare di Roma”, che pure è stata ampliata e abbellita dal regime”, spiega Alfredo Pasquetti, direttore dell’Archivio di Stato reatino. “A rendere possibile il nostro lavoro è stata la collaborazione della Camera di Commercio di Rieti, dell’Istituto Luce che ha fornito dei filmati d’epoca che è possibile ammirare su un monitor, e della Alessandro Rinaldi Foundation che ci ha concesso foto e materiale alpinistico d’epoca”.

Viviamo in tempi di mostre e di musei-spettacolo, ed è bene dire subito che quella dedicata al Terminillo non lo è. Grazie al materiale esposto nelle sue vetrine, però, è possibile ricostruire una storia affascinante e complessa, che non può essere ricondotta a una semplice parata di regime.

“Il Fascismo non era monolitico, e la storia del Terminillo lo fa capire molto bene”, spiega Daniele Scopigno, curatore della mostra con Pasquetti. “Anche se da Mussolini arriva l’ordine di procedere con rapidamente, esistono seri problemi finanziari. Lettere, preventivi e altri documenti consentono di scoprire gli scontri tra i gerarchi locali e Roma, e il tentativo di Adelchi Serena, podestà dell’Aquila e molto vicino al Duce, di favorire Campo Imperatore ai danni della montagna-simbolo di Rieti.

Mostra che l’Italia di quegli anni non è unita una missiva spedita nel 1934 da Giovanni Agnelli, patron della FIAT e del Sestrière, a Ludovico Spada Potenziani, esponente di primo piano del Fascismo reatino, che gli aveva chiesto di investire sulla “montagna di Roma”. “Non desideriamo interessarci in nessun modo in industrie alberghiere”, “l’unica cosa che posso fare per il Terminillo è di mettere a disposizione la nostra esperienza” scrive con brutale franchezza l’industriale torinese.

Dagli archivi, soprattutto della Camera di Commercio, arrivano mappe, documenti e progetti che spiegano la storia di alberghi, strade e impianti di risalita. Non mancano articoli di giornale che celebrano la nascita della “Montagna di Roma”.

Solo due, invece, le immagini di Benito Mussolini al Terminillo. In una cammina con in testa un berretto di lana, affiancato da un personaggio che arranca sulle racchette da neve. Nell’altra il Duce scende con uno slittino. Mancano le sue foto sugli sci, che in quegli anni appaiono sulla Rivista Mensile del CAI, accompagnate dalle parole del presidente Manaresi.

“La storia è storia, e la dobbiamo raccontare, la mostra serve a ricreare un legame tra la città e la sua montagna”, spiega Daniele Sinibaldi, sindaco di Rieti ed esponente di Fratelli d’Italia, che ha partecipato all’inaugurazione della mostra. Sullo sfondo, naturalmente, c’è anche l’annosa questione del TSM2, il carosello di impianti che si vorrebbe realizzare sul versante settentrionale, il più integro del Terminillo.

Abbastanza deludente, va detto, è la sezione della mostra sull’escursionismo, l’alpinismo e i rifugi, realizzata con i materiali della famiglia Rinaldi. Forse un coinvolgimento delle sezioni di Rieti, dell’Aquila e di Roma del Club Alpino avrebbe permesso un racconto più completo, prima, durante e dopo gli anni della “Montagna di Roma” e della Dolce vita sulla neve.

Non ha senso protestare, però. La storia dell’alpinismo e dello sci nell’Appennino resta un tema sconosciuto o quasi, anche al pubblico di praticanti e appassionati. Mentre i musei di Reinhold Messner e il Museo Nazionale della Montagna di Torino (per non parlare di Chamonix e di Zermatt) hanno decine di migliaia di visitatori e un intenso programma di iniziative, i documenti e i cimeli sul Gran Sasso, i Sibillini e il Terminillo restano chiusi negli archivi.

Il minuscolo museo realizzato dal Parco Gran Sasso-Laga a Pietracamela è chiuso e abbandonato da anni. I centenari della prima salita del Paretone del Corno Grande (Enrico Iannetta e compagni, 1922) e dello scialpinismo sul Gran Sasso (Aldo Bonacossa, 1923) non hanno avuto alcun festeggiamento ufficiale.

Per questo l’iniziativa di Alfredo Pasquetti, di Daniele Scopigno e dell’Archivio di Stato di Rieti è preziosa. “L’invenzione del Terminillo”, magari arricchita, dovrebbe diventare una mostra permanente, e magari essere spostata sul massiccio. Se il prezzo per farlo è dare un po’ di spazio a Benito Mussolini penso che ne valga la pena.

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