Eccesso di turismo in montagna e il patto del non racconto
Per fortuna esistono ancora spazi così rari e preziosi che meritano di non essere raccontati, se non per quello che suscitano in noi quando li attraversiamo
L’eccesso di turismo è un problema conclamato per le Alpi.
Questo accade quando i luoghi di villeggiatura si trasformano in enormi parcheggi, provocando ingorghi chilometrici, con carovane di persone che si incolonnano lungo i sentieri più gettonati ed eserciti di vacanzieri si accalcano a caccia di selfie, con sfondi tutti indistintamente “mozzafiato”.
Il tal modo il crescente bisogno di svago in paesaggi naturali non contraffatti, presto diventa fuori controllo e si trasforma nel peggior acido corrosivo in grado di annientarli.
Ahinoi il paesaggio ridotto a spettacolo non coinvolge solo gli spazi più scenografici e di facile accesso, ma progressivamente va ad interessare creste, pareti, ghiacciai…un tempo ritenuti inattaccabili.
La spettacolarizzazione delle vette, più o meno alimentata dall’industria dell’outdoor, arriva all’improvviso e travolge in un istante angoli di paradiso, spazi riservati, giardini un tempo incontaminati.
L’onda nera dei social network alimenta a dismisura il contagio, bastano poche immagini per dirottare flussi di arrampicatori, trekkers, sciatori fuori pista, ciaspolatori e pure alpinisti verso la destinazione “cool” del momento.
È assai difficile arginare il fenomeno, soprattutto nei luoghi arcinoti, ormai contagiati dalla maledizione di instagram.
Per fortuna esistono ancora spazi così rari e preziosi che meritano di non essere raccontati, se non per quello che suscitano in noi quando li attraversiamo.
Ormai abbiamo fatto il giro del globo e il globo è finito. Più conosciamo in superficie ogni spazio remoto, meno sappiamo penetrarlo nel dettaglio.
Più cediamo alla spettacolarizzazione, più rinunciamo a conoscere per davvero questi ultimi spazi selvaggi, ormai ridotti a piccoli scenari di “imprese” umane, troppo umane.
Quando abbiamo la fortuna di esplorarli, magari per caso, può essere utile e salutare, per noi e per questi ambienti ormai sempre più rari, attenersi al patto del non racconto.
Il patto del non racconto è un semplice impegno a non mostrare alcuna descrizione, foto, suono o video riconducibile a questi piccoli, grandi, Eden perduti.
Ricordandoci che solo luoghi speciali come questi consentono di mettersi in ascolto e favorire una tale sintonia fine, così potente da farci dimenticare la necessità corrente di frequentarli quasi sempre solo per esibirli, come si fa con un trofeo, senza comprenderli realmente.
Insomma si tratta di tentare di ridimensionare il nostro “io” supponente e magari tornare arricchiti alla nostra routine, un’occasione per disfarci delle medaglie di latta con cui ci nutriamo ogni giorno, in una sorta di contagio collettivo.
Vero,medaglie di latta,una massa di pecoroni che si credono tutti dei Messner solamente per il fatto di aver salito creste con difficoltà di secondo grado, e poi arrampicati sulle croci come scimmie per farsi il solito selfie.
Assolutamente d’accordo con il “patto del non racconto”. Ho scritto decine di guide alpinistiche ed escursionistiche ma ho deciso che non racconterò più nulla, non svelerò più alcun angolo nascosto. Qualcuno mi dice: “ma se non lo fai tu lo farà un altro, tanto vale…” Non mi interessa. Almeno non sarò io il responsabile del segreto svelato. E comunque, ho sempre la speranza che l’esempio serva.