Meridiani Montagne

Piccola isola con superbe sponde

Testo di Alessandro Gogna, tratto dal numero di Meridiani Montagne “Campanile Basso e Val Rendena”

Chi guardi da lontano il Gruppo di Brenta con la speranza di scorgere il Campanile Basso, 2883 metri, rimarrà deluso. Soltanto dalla Val di Cembra, e in particolari condizioni di visibilità, si può osservare, emergente dalle nebbie, una guglia irreale, il “Campanile delle Strie”. Questo era il primo nome del Campanile Basso, che i tedeschi chiamano Guglia di Brenta. In seguito mille aggettivi, mille definizioni hanno cercato di esprimere quanto l’animo umano prova di fronte a uno spettacolo così unico e irripetibile. Tita Piaz scrive: “Poche prime salite avevano fatto tanto rumore, neanche la parete sud della Marmolada; e se questa era tecnicamente più difficile, senza dubbio la ‘guglia’ richiedeva maggiore coraggio perché la sua cronistoria l’innalzava di parecchi gradini, tanto da darle un alone di leggenda”. E Paolo Graffer conferma: “Il Basso è un simbolo per noi trentini, di bellezza, di solidità, di fascino. Chi lo vede per la prima volta si sente incantato, chi lo rivede lo sente suo, chi non riesce a salirlo si sente in colpa”.

Il fremito della conquista

Una data: 12 agosto 1897. L’alpinista trentino Carlo Garbari provò per primo l’ascensione, con le guide Nino Pooli, di Covelo di Terlago, e Antonio Tavernaro, di Primiero.
Le difficoltà del Basso sono soprattutto in aperta parete. Era proprio l’assoluta mancanza di fessure e camini che scoraggiava i tentativi. Una parete esposta di 25 metri, il primo ostacolo, fu chiamata Parete Pooli. “S’inerpicava adagio adagio il bravo ragazzo su per la difficile parete, che dal basso si giudicava quasi insuperabile, e lì sospeso a quelle rocce dava prova quanto valessero l’energia, la volontà e la forza” (Carlo Garbari). Dopo altre difficoltà e astute traversate, eccoli alla base della parete terminale: “[…] il forte Nino (mi assalgono ancora i brividi a rammentarlo) fece l’ultimo tentativo. Dopo che il Tavernaro ebbe fissata la corda ad un blocco, egli salì adagio adagio la parete perpendicolare, gli scarsi e cattivi appigli lo lasciavano procedere assai lentamente; era cosa da far raccapricciare vederlo con le mani incerte e tremanti cercare ogni asperità, tastare coi piedi la roccia, per indovinare ogni sporgenza, appiccicarsi con tutta la persona alla parete… (il povero ragazzo aveva affidato tutto il peso del corpo alle prime falangi delle dita), stette lì fermo alcuni istanti, poi ridiscese”.

E una seconda data: 16 agosto 1899. Due giovani tirolesi di Innsbruck, Otto Ampferer e Karl Berger, reduci dalla conquista del Pollice delle Cinque Dita, senza nulla sapere del tentativo italiano, muniti di chiodi, riprovarono. Presto si accorsero da varie tracce di essere stati preceduti. Giunsero anche loro al Pulpito Garbari e qui lessero il suo biglietto “Al secondo miglior fortuna!”. “Dunque la possente montagna non era stata ancora vinta! Un fremito di gioia scosse i nostri corpi, sentimmo respirando profondamente che nuove forze si destavano in noi. Giallo rossastra strapiombante, dai contorni finemente scheggiati, si levava davanti a noi la parete della vetta. Non una fessura, non un rientramento ci faceva sperare qui una qualsiasi facilitazione” raccontò Ampferer. Ma la parete terminale era insuperabile, nonostante il tirolese infiggesse due chiodi a martellate. Stavano ormai per retrocedere quando si accorsero della possibile traversata sulla parete nord. Due giorni dopo tornarono ben decisi e raggiunsero la vetta, con la sicurezza di un chiodo su quella che poi sarà chiamata Parete Ampferer. “Altri uomini hanno conquistato grandi isole con piatte coste, noi una piccola con alte, superbe sponde” conclude felice Ampferer.

Il primo V+ delle Alpi (e i primi chiodi)

Eduard Pichl scrisse che i primi chiodi furono usati sulla parete sud della Mitterspitz (2926 m), nel Dachstein, da parte di Robert Hans Schmitt e Fritz Drasch. Ma, nelle Dolomiti, sembra proprio che i primi a utilizzarli furono Ampferer e Berger, dunque sul Campanile Basso e in parete aperta. Le difficoltà del Basso erano inferiori ad altre precedenti, ma l’alone di leggenda e l’estrema esposizione al vuoto lo facevano apparire più difficile. Infine si deve osservare che solo cinque anni dopo, Nino Pooli tornò alla “sua” parete terminale con l’obiettivo di salirla, ancora senza usare chiodi.

Ecco un’altra data: 31 luglio 1904. Già diciotto cordate si erano susseguite sul Campanile Basso. Ma Nino Pooli non volle seguire l’astuta soluzione di Ampferer: volle salire là dove egli stesso era stato respinto. Assieme a un tipografo di Trento, Riccardo Trenti, tornò sul Basso, salì fino al Pulpito Garbari e da lì vinse, di pura forza e coraggio, quegli ultimi 35 metri che gli avevano una volta negato la vittoria. Non si sa cosa rendesse Pooli così sicuro di farcela, ma egli fece trascinare a Trenti un palo cui attaccò, giunto sulla vetta, la bandiera di Trento. Oggi le difficoltà della via Pooli-Trenti sono classificate di V+ e si può ben dire che su quei 35 metri di via nuova fu scritta una delle più emozionanti e grandi pagine dell’alpinismo dolomitico. Così il V+ fece la sua comparsa sulle Alpi intere. Quest’impresa può stare alla pari di quella di Georg Winkler sull’omonima torre del Vajolet, allorché il livello s’innalzò di colpo. Pooli corse un enorme rischio di precipitare, ed è questo rischio che anche oggi, pur essendo annullato di fatto dalle moderne tecniche alpinistiche, non cessa di affascinare.

Quattro anni dopo l’impresa di Pooli, il 27 agosto 1908, il Campanile Basso diventa la ribalta di un tedesco e di un americano: Rudolf Fehrmann, di Dresda, e Oliver Perry-Smith, di Filadelfia. Furono loro a tracciare, su un diedro evidente del Basso, una delle più belle vie delle Dolomiti, anche se leggermente inferiore per difficoltà alla via di Pooli. Merito di scoprire la linea fu di Fehrmann: un diedro, che si apre ad angolo retto tra il Campanile Basso e lo Spallone. Si tratta di 350 metri assai sostenuti, tra le vie più classiche ed estetiche che si possano immaginare. E arriviamo all’ultima data. La più importante.

Paul Preuss, il signore dell’abisso

Il 28 luglio 1911 si ricorda nella storia del grande alpinismo per la salita solitaria di Paul Preuss sulla Est del Campanile Basso. Su questa opera d’arte sono stati versati fiumi d’inchiostro, fino al delirio più osannante di ciò che fu anche una dimostrazione pratica delle teorie di Preuss, le quali stavano per uscire sul Deutsche Alpenzeitung di agosto.

Qui ci limitiamo a riportare tre pareri, quello tecnico di Gino Buscaini, quello di Angelo Dibona e quello del massimo cantore di Preuss, Severino Casara. Eccoli, nell’ordine:
Arrampicata di eccezionale eleganza e della massima esposizione, su roccia ideale, che percorre quella stretta parete grigia, stupenda muraglia alta 110 metri, che si alza verticale sopra la cengia.” (Gino Buscaini)
“Anche se breve, la via più impressionante delle Dolomiti.” (Angelo Dibona)
“È la più audace e aristocratica affermazione dell’alpinismo su roccia. Mai uomo sulla montagna riuscì a soggiogare la materia, a ridurre il proprio peso alla leggerezza di un’ala, per attingere nel vuoto più vertiginoso una cima.” (Severino Casara)

Paul Preuss quel giorno fu veramente il “signore dell’abisso” (Tita Piaz): salì in due ore con la corda a tracolla e si è raccontato scendesse per la stessa via in mezz’ora. È vero che Preuss nel suo taccuino non segnò una freccina verticale discendente accanto alla citazione della parete est, ma non per questo è certo che scese per la via Normale. Egli scese comunque per la Est tre giorni dopo, con Paul Relly.
La via di Preuss fu una dimostrazione, voluta razionalmente, delle sue teorie. E accadde che quell’avventura entrasse nel cuore della gente, l’autorizzasse a fare del Maestro un mito e determinasse la fine di un ciclo. Se si volesse riproporre oggi l’idea fondamentale di Preuss, avrebbe ragione Casara a dire che l’alpinismo termina con lo stesso Preuss.

Altri approfondimenti sul numero 121 di Meridiani Montagne “Campanile Basso e Val Rendena”.

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