Alpinismo

Ottant’anni fa la “fuga” di Felice Benuzzi sul Monte Kenya

Ottant’anni fa, tra il gennaio e il febbraio del 1943, tra le foreste e le rocce del Monte Kenya va in scena una delle avventure più romantiche mai vissute dall’uomo in montagna. Tre prigionieri di guerra italiani, dopo lunghi preparativi segreti, evadono da un campo di concentramento britannico, e salgono verso la seconda montagna dell’Africa. Per mancanza di equipaggiamento e allenamento falliscono l’ascensione al Nelion, che con i suoi 5199 metri è la vetta più alta del massiccio. Qualche giorno più tardi arrivano sulla elementare Punta Lenana, 4985 metri, dove lasciano un tricolore fatto in casa. Poi si trascinano a valle e si riconsegnano agli inglesi, che li puniscono ma ammirano il loro exploit coraggioso.

“Alpinismo tra le belve” definisce quell’avventura Dino Buzzati, nel 1948, sul Corriere d’Informazione. Usa dei toni analoghi Arrigo Levi, un’altra grande firma del giornalismo italiano, che nel 1953 racconta la fuga e l’ascensione sul Corriere degli Italiani di Buenos Aires.

A ideare l’impresa è Felice Benuzzi, un ufficiale nato a Trieste, che ha alle spalle un discreto passato da alpinista, e che ha arrampicato sulle Alpi Giulie e sulle Dolomiti insieme a Emilio Comici. La sua ascensione più importante è un’invernale dello Čuc dal Boor, un’ostica e solitaria vetta rocciosa della Carnia.

Al termine della Seconda Guerra Mondiale, Benuzzi affronterà la carriera diplomatica, arrivando a rappresentare come ambasciatore l’Italia in Uruguay (da cui andrà spesso in montagna sulle Ande), in Nuova Zelanda e in Australia. Torna più volte in Kenya, e dedica alla montagna dei suggestivi acquerelli.

Il libro che Felice Benuzzi dedica alla sua avventura, Fuga sul Kenya nella versione italiana, No Picnic on Mount Kenya in quella in lingua inglese, raggiunge solo un pubblico di nicchia nella nostra lingua, ma diventa un best-seller della letteratura di montagna in inglese.

Tutto inizia nell’estate del 1940, quando l’entrata in guerra dell’Italia di Mussolini a fianco della Germania nazista isola il Kenya dall’Europa. Dopo una breve offensiva italiana, che porta all’occupazione della Somalia britannica, gli inglesi passano al contrattacco.

Nel marzo del 1941, l’Union Jack sventola sull’Etiopia, sull’Eritrea e sulla Somalia, nei primi giorni di aprile il Negus Hailé Selassié rientra ad Addis Abeba, da cui era stato cacciato cinque anni prima dalle truppe del maresciallo Badoglio. Solo la piazzaforte di Gondar resiste fino all’autunno.

Intanto, decine di migliaia di ufficiali, sottufficiali e soldati italiani catturati in Africa orientale e in Libia sono diventati POW, Prisoners of War, dei prigionieri di guerra. Alcuni di loro vengono trasferiti via mare in India, altri restano in Africa orientale. Felice Benuzzi viene rinchiuso nel Camp 354, nei pressi della cittadina di Nanyuki, ai piedi del Monte Kenya. Intorno all’abitato e al campo si estendono fertili campi coltivati. Poco più in alto, oltre una linea ferroviaria, inizia la fitta foresta che riveste la parte bassa della montagna.

Una sera del 1942, oltre i reticolati del Camp 354, Benuzzi vede apparire il Monte Kenya. E’ una montagna “argentea, circonfusa di nubi, tagliente”, circondata da “ghiacciai che sembrano sospesi nel vuoto, irreali”. “Ha qualcosa del Monviso, ma lo batte” pensa l’ufficiale triestino quando paragona la grande montagna africana alle Alpi.

La visione delle rocce e dei ghiacci del Monte Kenya dura pochi minuti, poi le nuvole la nascondono di nuovo. La voglia di salire fin lassù, per un uomo che sa di dover restare in prigionia per anni, significa sentirsi ancora vivo. Nelle settimane che seguono, Benuzzi coinvolge nel suo progetto Giovanni Balletto e Vincenzo Barsotti. Il primo è anche lui un alpinista, il secondo aspetterà i compagni alla base.

Dei pezzi delle reti di canapa delle brande del Camp 354 servono a intrecciare delle corde, dei rottami di ferro si trasformano in piccozze e in rudimentali ramponi. Un po’ di cibo delle magre razioni dei prigionieri viene via via accantonato. L’unica fonte di informazioni sulla montagna è l’etichetta di una scatola di carne marca Kenylon, dov’è raffigurato il versante meridionale del monte. Ma Benuzzi, Barsotti e Balletto arrivano da nord-ovest.

La sera del 24 gennaio 1943 i tre prigionieri italiani evadono dal Camp 354. Traversano i campi coltivati, s’inoltrano nella foresta, la risalgono con qualche incontro ravvicinato e pericoloso con rinoceronti ed elefanti. Il 4 febbraio Benuzzi e Balletto lasciano Barsotti in una piccola tenda, risalgono un faticoso ghiaione e attaccano lo spigolo Ovest del Batian, un’arcigna struttura rocciosa con difficoltà fino al quarto grado.

I due sono legati con una sottile e malsicura corda di agave, non sono attrezzati per il freddo, ma l’arrampicata (“ginnastica tanto attesa e tanto cara!”) riempie Felice Benuzzi di gioia. Superata in diagonale la parete della Punta Dutton, traversato un sottile canalino ghiacciato, la parete diventa verticale. Rocce più facili portano i due a una forcella.

Seguono un tratto facile e delle rocce levigate da un antico ghiacciaio, poi la parete inizia a essere coperta di neve fresca. Giovanni Balletto, Giuàn nel racconto di Benuzzi, arrampica da primo, in bello stile, pur sapendo che la corda di agave non è in grado di reggere un volo da capocordata. All’una del pomeriggio, quando una bufera di neve investe la montagna, arriva il momento della rinuncia.

Una sosta per addentare le magre provviste (pezzetti di cioccolato, di noccioline e di zucchero rimaste dal pacco natalizio della madre di Benuzzi) precede i passaggi più duri, dove Giuàn cala di peso il compagno per poi scendere in corda doppia. Alle sei di sera, dopo dodici ore in parete, i due rimettono piede sul ghiaione. A notte fonda, dopo aver vagato tra massi e seneci, tornano alla tenda da Barsotti.

Due giorni dopo, Felice e Giovanni partono dalla tenda all’una del mattino, e salgono faticosamente, per ghiaie, fino ai 4985 metri della Punta Lenana. Si siedono al sole, scoprono sul versante opposto la Austrian Hut, un piccolo rifugio utilizzato ancora oggi dai frequentatori del massiccio. Poi lasciano sulla vetta un tricolore fatto in casa, e iniziano l’interminabile discesa.

Quella bandiera, che viene ritrovata da un gruppo di britannici qualche giorno più tardi, dimostra che i POW italiani sono saliti lassù. Tre giorni di discesa nella foresta, con la paura di incontri ravvicinati con leoni, elefanti e bufali, riportano i tre italiani al Campo 354, dove si riconsegnano agli inglesi. Il comandante del campo, ammirato, riduce da ventotto a sette i giorni di punizione imposti dal regolamento.

“Di quei sette giorni di cella conservo un ricordo graditissimo, come d’un degno epilogo della nostra spedizione” scriverà Felice Benuzzi nel suo libro. In una notte di luna piena, attraverso le sbarre, rivede in lontananza la montagna. “Sembrava più bella che mai, forse perché non l’avevamo vinta” conclude.

Tags

Articoli correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Back to top button
Close