Meridiani Montagne

Everest, bazar dei desideri contemporanei

Se il tuo tempo sui cento metri piani è di 11”52, puoi aspirare ai circoli amatoriali, ma sei fuori da qualsiasi gara professionistica. Non però se corri sulle protesi, come Andrea Lanfri, che infatti con quel tempo ha vinto medaglie di vari colori ai campionati mondiali, europei e italiani, stabilendo diversi record. La storia e il palmarès dell’atleta lucchese, classe 1986, li trovate in dettaglio su Wikipedia, tranne l’ultimo, importante aggiornamento: Lanfri a maggio di quest’anno è salito in cima all’Everest, primo al mondo con doppia amputazione a compiere l’impresa. Potrete leggere l’intervista condotta dal nostro Mario Giacherio sul numero di luglio di Meridiani Montagne, in cui Lanfri racconta con grande semplicità la sua avventura, l’allenamento sulle montagne italiane, le sue motivazioni.

Detto questo, parliamo ancora di Everest, che è dientato un argomento davvero inesauribile. Non più una montagna, non il primo degli Ottomila, ma vetrina globale di ogni genere di prodotto, non-luogo dell’ispirazione e dell’aspirazione, ordalia per chiunque voglia entrare nel Guinness. Tutto, ormai, tranne che alpinismo. Da quando è stato preso d’assalto dalle spedizioni commerciali (da almeno un quarto di secolo: si rilegga Aria sottile di Krakauer) l’Everest ha subito un irreversibile cambiamento di status, si è trasformato in una sorta di santuario dei record. Quelli, sacrosanti, dei portatori di disabilità: il primo con protesi al piede (Tom Whittaker, 1998) il primo non vedente (Erik Weihenmayer, maggio 2001), il primo con doppia protesi alle gambe (Mark Inglis, maggio 2006), la prima con sclerosi multipla (Lori Scneider, 2009), il primo con il morbo di Crohn (Rob Hill, 2010), e a seguire un diluvio di primati simili, divisi per genere, nazionalità, grado di disabilità.

Poi naturalmente ci sono i record di età (73 anni quello femminile, 80 per quello maschile, entrambi detenuti da scalatori giapponesi, e quello opposto del tredicenne Jordan Romero nel 2010), primati di velocità (10h56’ per Lakpa Gelu Sherpa con ossigeno nel 2003) e di permanenza in vetta (32 ore per il maestro di meditazione Bhakta Kumar Rai nel 2011). E altri decisamente più sciocchi e/o pericolosi, come quell’altro sherpa che si è denudato sulla cima per tre minuti, nel 2006, o i due, sempre sherpa, che vi hanno celebrato il matrimonio nel 2005. C’è chi dalla cima ha lanciato palline da golf (era accaduto anche sul Cervino) o ha lanciato il primo messaggio con Twitter. Per fortuna alcune delle imprese più strampalate falliscono, come quella concepita dal (pur serio) alpinista Simone Moro con il campione di bike trial Vittorio Brumotti, nel 2012: l’idea era di compiere il maggior numero di salti sulla ruota posteriore di una bicicletta, sul Tetto del Mondo. Chi centra sempre l’obiettivo sono gli sponsor che riescono a far portare il proprio marchio sulla cima: banche, bibite gassate, assicurazioni, automobili (vedi ad esempio il saggio Logos on Everest: Commercial Sponsorship of American Expeditions, 1950–2000 pubblicato online da Cambridge University Press). Everest come bazar dei desideri contemporanei.

È sull’onda di queste riflessioni che ho letto con grandissimo piacere il libro di memorie di Krzysztof Wielicki, polacco, Piolet d’Or alla carriera nel 2019, meritoriamente tradotto da Luca Calvi (Frammenti d’alpinismo, Priuli & Verlucca). Quinto uomo a completare la collezione degli Ottomila, specialista di invernali himalayane, antidivo per eccellenza, Wielicki è un esempio di alpinismo antico, inarrivabile per tecnica e coraggio, e di umiltà. Il libro, venato più di arguzia che di spiriti eroici, è da leggere e non sto a raccontarvelo. Voglio solo ricordare qui il capitolo dedicato all’Everest, che Wielicki sale in prima invernale, il 17 febbraio 1980. Nel capitolo in questione, l’Everest non è neppure citato. Si parla invece di una convocazione presso la stazione di polizia, di un temuto arresto (Wielicki faceva parte di Solidarność), di un interrogatorio degno del Processo di Kafka. Infine, di una domanda dell’inquisitore:

“Lei dichiara di aver ricevuto un televisore a colori come premio per aver salito l’Everest?”
“Sì”, ammette lo scalatore, “ricordo che pesava molto”.
“Bene, allora può andare”.

Tutto qui. Un semplice controllo amministrativo. L’Everest in prima invernale, sepolto sotto la farsa della burocrazia.

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