AlpinismoAlta quota

Topo Mena e Jonatan Garcia rinunciano al Gangapurna

Siamo tornati alla civiltà da pochi giorni” con queste parole da Kathmandu Esteban “Topo” Mena ha annunciato la fine della spedizione con Jonatan Garcia al Gangapurna (7.455m).

Dalle poche informazioni che avevamo avuto dai due alpinisti fino ad ora, l’obiettivo era di scalare la parete sud “salendo una bella linea di ghiaccio che ci faceva sudare i palmi e brillare gli occhi. Nel caso in cui la parete non fosse stata in buone condizioni, avevamo anche la possibilità di arrivare alla Cresta Ovest da sud e così continuare con l’idea di riuscire a vedere l’Annapurna a marzo” racconta Mena sul suo blog.

L’arrivo al campo base, posizionato a 4700 metri, è avvenuto in elicottero il 6 marzo. Da lì i due alpinisti hanno potuto verificare di persona le condizioni della montagna, che si sono rivelate “non molto incoraggianti per portare avanti i nostri progetti più ambiziosi”. L’unica opzione percorribile sulla parete sud era la via coreana del 2016, le altre non si erano nemmeno formate; rimaneva però ancora aperta l’ipotesi della cresta ovest.

La prima rotazione di acclimatamento avviene il 9 marzo con l’obiettivo di abituare il corpo ai 6000 metri, osservare le condizioni del Gangapurna da vicino e scattare qualche foto. Dopo i 5100 metri, racconta Mena, i due si sono però trovati a sprofondare nella neve alta fino alla cinta. “Dopo circa duecento metri in questa situazione, ridendo a vicenda quando l’altro sembrava intrappolato fino al collo, con il GPS che segnava 5400m, abbiamo deciso che questa volta non era possibile procedere”. 

In quel momento ha iniziato a maturare l’idea della rinuncia, che ha poi preso forma. “Le basse temperature e la direzione del vento, oltre alla neve profonda/sfaccettata che abbiamo trovato sotto lo strato di neve ventata di 15 cm, sono state sufficiente per farci capire che le condizioni non sarebbero cambiate minimamente nel futuro prossimo e forse anche per il resto della stagione, almeno nel lungo e impegnato avvicinamento alla linea dei nostri sogni. La vista della parete più asciutta del previsto e le condizioni per arrivare alla base della stessa sono stati i motivi della decisione di riprovare in futuro, ma solo dopo che il monsone ha visitato queste montagne” spiega Mena.

“Con il cuore spezzato dal fatto di non aver potuto nemmeno testare la parete, abbiamo deciso di chiamare l’elicottero e andarcene”. Rimanere al capo base settimane ad attendere non era una possibilità, come racconta l’alpinista “le temperature calde avrebbero consolidato il mantello, ma non è detto che quel poco di ghiaccio presente sarebbe rimasto. Il rischio di restare in un posto del genere, circondato dai seracchi, superava la speranza che le condizioni potessero migliorare. Un rischio del genere non era giustificabile per così tanto tempo senza scalare”.

Pur esprimendo tristezza per la conclusione affrettata, Mena si dice comunque contento per essere tornato vivo e per avere avuto l’opportunità di ammirare il Gangapurna, di visitare una zona dell’Himalaya in cui non era mai stato e di aver conosciuto meglio il compagno Jonatan Garcia con il quale spera di poter condividere nuove avventure in futuro.

Le ultime parole di Esteban Mena sono un riflessione: “A volte le montagne che scaliamo decidono di porre fine alle cose bruscamente. Sono contento che questa volta abbia significato fare marcia indietro e pianificare un’altra visita in futuro. Quando uno si propone di trovare una via nell’ignoto, le conseguenze del fallimento non si limitano al potere stare o meno in vetta a una montagna, le conseguenze possono essere la morte, la nostra o quella di coloro che amiamo. Comprendendo che ogni cosa ha la sua ragion d’essere, accetto le possibili conseguenze di questa ricerca, ma capisco anche che la strada è lunga e l’umiltà di comprendere la montagna non viene solo con il nettare del successo, ma arriva anche dai momenti amari in cui il tuo cuore è spezzato. Sono questi i giorni in cui si crea e si immagazzina il carburante che verrà tutto utilizzato sulle montagne quando arriva il giorno giusto. L’unica cosa che chiedo all’universo è di avere la capacità di vedere quando arriverà quel giorno”.

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