Storia dell'alpinismo

Monte Kenya, le avventure di Eric Shipton

Arrivare in una fattoria dell’East Africa con una piccozza, scarponi da montagna e decine di metri di corda può sembrare piuttosto ridicolo”. Dalla metà dell’Ottocento, quando i britannici hanno inventato l’alpinismo (o almeno, ne hanno fatto un’attività popolare) alle loro ascensioni si sono affiancate decine di frasi destinate a entrare nella storia. Quella che abbiamo appena citato, pronunciata dal ventunenne Eric Shipton prima di partire per il Monte Kenya, è rimasta tra le più famose. 

Eric Shipton

Nato nel 1907 a Ceylon, l’odierno Sri Lanka, Shipton si trasferisce in Inghilterra da ragazzo, e scopre la montagna sui Pirenei. Poi, prima di compiere vent’anni, percorre le vette della Norvegia e le Alpi. Vorrebbe studiare geologia, ma preferisce tornare ai Tropici, per vivere la vita “ragionevolmente libera” del coltivatore di tè. Guarda caso, si sistema a poca distanza dal Monte Kenya. 

Tra gli alpinisti e i viaggiatori di oggi, Shipton è famoso soprattutto per i suoi tentativi all’Everest. Tenta di salirlo nel 1934, nella prima spedizione (la quarta in assoluto) organizzata dall’Alpine Club e dalla Royal Geographical Society dopo la tragedia che nel 1924 è costata la vita a George Mallory e a Andrew Irvine. Insieme a Frank Smythe, Eric passa la notte in un campo a 8350 metri, poi sale obliquamente sul versante nord-est della montagna. Non sta bene, e rinuncia quasi subito, mentre l’amico raggiunge quota 8570, nel canalone già toccato nove anni prima da Norton. Shipton torna sul “Tetto del mondo” nel 1935 e nel 1936, e dei due team fa parte anche Harold “Bill” Tilman. Ma l’Everest è carico di neve, ed entrambi i tentativi si fermano presto. Nel 1951, dopo la Seconda Guerra Mondiale, Eric dirige la piccola spedizione britannica che cerca una via di salita dal Nepal. Insieme a Edmund Hillary, da un cocuzzolo di 6100 metri ai piedi del Pumori, osserva la seraccata del Khumbu e la parete del Lhotse, e scopre che la salita è possibile. La comitiva affronta la seraccata, la risale, viene fermata da un gigantesco crepaccio all’ingresso del Western Cwm, la facile conca glaciale tra l’Everest, il Lhotse e il Nuptse. 

Un anno dopo, mentre una spedizione svizzera tenta di salire l’Everest, Eric Shipton guida un team britannico sul Cho Oyu, la sesta cima della Terra. Le sue incertezze in quei giorni, insieme all’esigenza “imperiale” di vincere a ogni costo l’Everest, fanno sì che Eric venga scartato come capospedizione, per lasciare il posto al colonnello (e ottimo alpinista) John Hunt. Shipton soffre, resta in Inghilterra, abbraccia sportivamente al ritorno la squadra che ha raggiunto gli 8848 metri della vetta. Poi torna alla sua vita di esploratore, dedicandosi al Karakorum (dove era già stato due volte) e poi alla Patagonia, dove compie sei spedizioni avventurose. Scompare nel 1977. I suoi libri, da Upon that Mountain (1948) a Land of Tempest (1963) e a That Untravelled World (1969) sono dei capolavori, purtroppo poco conosciuti in Italia.  

Il Monte Kenya

Quando Eric Shipton arriva nella fattoria insieme al suo bizzarro bagaglio, il Monte Kenya non è ignoto. Osservato a distanza nel 1848 dai missionari svizzeri Johann Rebmann e Ludwig Krapf, è stato tentato nel 1887 dal conte ungherese Samuel Teleki de Szek. Nel 1899, lo scozzese Sir Halford Mackinder e le guide di Courmayeur César Ollier e Joseph Brocherel (“guide svizzere” secondo gli autori britannici) raggiungono il Batian, 5199 metri, la più alta tra le due vette della montagna. Resta da salire il Nelion, undici metri più basso, e l’intero versante settentrionale della montagna è inesplorato. Ottantasette anni fa, all’inizio del 1929, Eric Shipton si incontra a Nairobi con Percy Wyn Harris, funzionario del governo coloniale britannico che lo accompagnerà qualche anno dopo sull’Everest. Si aggrega ai due alpinisti inglesi il norvegese Gustav Sommerfelt, un amico con cui Eric ha scalato in Scandinavia. 

Uno scalcinato camion porta i tre alpinisti al villaggio Maasai di Chogoria, “con solo un pneumatico scoppiato, e una foratura ordinaria”. L’indomani, insieme a un gruppo di portatori, i tre europei s’incamminano, accompagnati da “un appassionato alluvione di racconti di montagna, dal Cervino, che conoscevamo tutti, fino alla cresta del Brouillard del Monte Bianco”.  

Il sentiero che s’inerpica nella foresta è “un toboga da elefanti”, più in alto si continua tra i bambù, e poi nell’erba alta, ormai in vista delle pareti settentrionali delle due cime. Quella del Nelion sembra “liscia, verticale e completamente impossibile”, ma sul Batian si vedono canalini e cenge. Quando toccano finalmente la roccia, i tre scoprono che “è solida e tagliata di netto come il granito di Chamonix”. Il primo tentativo, però, si conclude sessanta metri sotto alla cima del Batian, alla base di una enorme placca impossibile da scalare. 

Nei giorni successivi, dopo aver spostato il campo accanto al Lewis Glacier, i tre seguono per un tratto la via dei primi salitori, passano a valle del Diamond Glacier superato dalle due guide di Courmayeur, poi attaccano direttamente la parete orientale del Nelion. 

La prima volta sono costretti a rinunciare, l’indomani Gustav è stanco e rinuncia, ma Wyn Harris è in gran forma, e arrampica “come una guida alpina su una montagna di casa”. Dal Nelion, di cui compiono la prima ascensione, i due scendono alla forcella della Gate of Mists, la “Porta delle nebbie”, e poi compiono la seconda salita del Batian. Verso sud, a 400 chilometri di distanza, li saluta la cupola di ghiaccio del Kilimanjaro. 

Negli anni che seguono arriva in Kenya anche Bill Tilman. Con lui Shipton sale il Kibo e il Mawenzi, le due vette del Kilimanjaro. Poi tocca di nuovo al Monte Kenya, dove i due inglesi s’inoltrano nella “foresta popolata dalla timida tribù dei Wanderobo” e poi salgono la magnifica cresta Ovest del Batian. La giornata decisiva è perfetta. L’aria è “tagliente, scintillante, intossicante”, e Shipton scrive di non aver “mai provato un benessere così completo”. Una diagonale su un ripido pendio di ghiaccio precede una serie di pinnacoli rocciosi, che i due, pensando al Monte Bianco, battezzano Petit e Grand Gendarme. 

Poi una cresta aerea, ripida e di roccia “identica a quella delle Aiguilles di Chamonix” porta i due sui 5199 metri della cima. La discesa verso sud-est consente agli inglesi di aggiudicarsi anche la prima traversata del Batian. Nei giorni che seguono, i due inglesi aprono un’altra bella via sulla Punta Piggot. 

In discesa però, in un canalino di misto, Tilman scivola, batte la testa sulla roccia e rimane stordito su un terrazzino. Per fortuna non si fa male seriamente, ed Eric Shipton riesce ad aiutarlo nella lunga discesa in corda doppia fino al ghiacciaio e alla tenda. 

Masede, la loro guida di etnia Kikuyu, quando li vede arrivare così male in arnese non si stupisce più di tanto. Bill ed Eric non mangiano da due giorni, si tuffano su una forma di formaggio Cheddar da tre chili e su un barattolo di cipolle sottaceto, divorano entrambi ma la guida rimane impassibile. “Non è più possibile impressionare un nero dell’East Africa con le inspiegabili stranezze dell’Uomo Bianco” commenta Shipton chiudendo il suo racconto sul Kenya.   

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