High Summit Cop26

I ghiacciai raccontano il clima del mondo

Intervista al glaciologo Valter Maggi

Da qualche anno i glaciologi, italiani e del resto del mondo, vengono spesso intervistati dalla televisione e dai giornali. Le domande che vengono loro rivolte, però, non sono allegre. La prima riguarda il ritmo della riduzione dei ghiacciai, e magari la data della loro estinzione finale. La seconda riguarda la probabilità di crolli potenzialmente rovinosi, come quelli che negli ultimi due anni hanno interessato il ghiacciaio di Planpincieux, sul versante italiano del Monte Bianco. 

Ma la glaciologia non è soltanto questo. Per Valter Maggi, professore di Geografia fisica all’Università di Milano Bicocca, le grandi colate di ghiaccio sono degli straordinari archivi naturali, che ci possono far conoscere la storia del clima della Terra, e aiutare a prevedere il futuro. Negli anni, Maggi ha estratto lunghissime “carote” di ghiaccio in Antartide, in Groenlandia e in altri dei luoghi più freddi del pianeta. Nella scorsa primavera, il suo lavoro lo ha portato sul Pian di Neve dell’Adamello, una distesa bianca a circa 3100 metri di quota. 

Un lavoro di ricerca che Valter Maggi presenterà all’High Summit COP26, che si terrà il 24 e 25 settembre a Minoprio (CO), con l’intervento “I ghiacciai come archivi climatici ed ambientali. Una risorsa in pericolo”.

A che punto è il vostro lavoro sul Pian di Neve, professore?

“Abbiamo estratto una carota di ghiaccio lunga 224 metri, che adesso è nel nostro freezer a Milano. La profondità del ghiacciaio in quella zona è di circa 270 metri, ma ci siamo dovuti fermare quando la sonda ha toccato delle rocce”. 

Quanti secoli ha il ghiaccio più profondo che avete estratto sull’Adamello?

“Secondo i nostri modelli dovrebbe avere circa mille anni, e quindi riportarci al Medioevo. Ma questa è solo una stima. Se ci sono state trasformazioni nel ghiaccio, come fusioni e rigeli, il tempo potrebbe ridursi alla metà”. 

Per chi come lei si occupa di trivellazioni e carote nel ghiaccio, 224 metri sono tanti, pochi o nella norma? E un migliaio di anni?

“Su scala planetaria sono pochi. In Groenlandia abbiamo estratto carote lunghe più di 3000 metri, con del ghiaccio di 120.000 anni fa. In Antartide, nei pressi della Base Concordia, si è arrivati a 3300 metri di profondità, e a un ghiaccio di 820.000 anni fa”. 

Cosa cercate nelle carote di ghiaccio che estraete sulle Alpi, in Groenlandia e in altre parti del mondo? E cosa pensate di scoprire?

“Il ghiaccio è uno straordinario archivio naturale, perché raccoglie le polveri e le altre sostanze trasportate dall’atmosfera. Le Alpi sono al centro di una delle zone più industrializzate del mondo, e questo esaminando il ghiaccio che estraiamo si vede. Sono evidenti anche le tracce dei grandi incendi avvenuti nei pressi della catena alpina”.

Nel ghiaccio vedete anche le tracce delle grandi eruzioni? Si parla spesso delle ceneri sparate nell’atmosfera nel 1883 dal Krakatoa. 

“Se ci occupiamo di eruzioni lontane, vediamo meglio le ceneri eruttate nel 1815 dal Tambora, un altro vulcano dell’Indonesia. Nel ghiaccio alpino, invece, si vedono poco le ceneri dell’Etna e degli altri vulcani italiani, e il motivo sta nei venti prevalenti. Sulle Alpi soffiano soprattutto da ovest, dall’Oceano Atlantico, e i venti da sud sono rari. Più delle ceneri dello Stromboli e dell’Etna, troviamo nel ghiaccio polveri arrivate dal Nordafrica”.

Cosa riuscite a capire, grazie al ghiaccio, della storia del clima della Terra? E cosa potete prevedere per il futuro?

“La glaciologia, al contrario di altri rami della scienza, non può usare un metodo sperimentale. Noi registriamo quello che troviamo, e facciamo dei modelli per prevedere il futuro. Paragono spesso il nostro lavoro al salto in lungo, che è composto di due fasi. Noi glaciologi facciamo la rincorsa, il salto vero e proprio lo fanno gli esperti dei modelli climatici”.  

Riuscite a fare un paragone tra il clima odierno della Terra e quello di prima dell’industrializzazione?

“Solo in parte, perché il termometro è stato inventato alla fine del Seicento, e i primi dati sistematici sulla temperatura in Europa risalgono a due secoli fa, cioè all’epoca della Rivoluzione industriale”. 

Oggi assistiamo alla riduzione dei ghiacciai, ma sappiamo che nel Medioevo essi erano più piccoli di oggi. La vite si coltivava anche oltre i 1000 metri, per il Colle del Teodulo, tra il Cervino e il Monte Rosa, potevano passare i muli. La vostra storia nel ghiaccio non si interrompe per quegli anni?

“No, perché crediamo che i grandi ghiacciai delle Alpi, dall’Aletsch al Lys e dalla Mer de Glace al Pian di Neve, in quegli anni non siano scomparsi, ma abbiano continuato a esistere, anche se con dimensioni ridotte”. 

Che temperatura ha il ghiaccio del Pian di Neve? E quello di altre parti della Terra?

“Sulle Alpi, ai circa 3000 metri del Pian di Neve, il ghiaccio è a -1° o a -2°, molto vicino al punto di scioglimento. Ai circa 4000 metri del Colle Gnifetti o del Colle del Lys in superficie si arriva a circa -10°, ma poi la temperatura sale. In Antartide, poco sotto la superficie, il ghiaccio è a -55°, poi, man mano che si scende, la temperatura sale”. 

Come si fa a scavare a quelle temperature?  

“Le sonde che usiamo sulle Alpi sono abbastanza semplici, in Antartide o in Groenlandia usiamo delle sonde termiche, che sono in buona parte dei robot. Costano care…”

A proposito, è facile trovare fondi per il vostro lavoro? 

“Paradossalmente è più facile trovarli per l’Antartide, dove si va con grandi spedizioni nazionali, che per il nostro lavoro sulle Alpi”. 

Lei ha lavorato in tutto il mondo. Ci sono zone remote dove vorrebbe scavare con le sue sonde? 

“Mi piacerebbe lavorare sul versante settentrionale del Karakorum, sui Monti Altai, sui ghiacciai d’alta quota della Bolivia e del Perù. Oppure in Nepal oltre i 7000 metri. In questo caso però l’acclimatazione, la logistica e i costi sarebbero dei problemi enormi”. 

C’è qualche ghiacciaio delle Alpi che la interessa?

“Forse in Val Malenco, ai piedi del Bernina. Ma è difficile, perché molte zone sono già state esplorate, e per estrarre delle carote ci vogliono dei ghiacciai fermi, che non scorrono. Da questo punto di vita il Pian di Neve è ideale, ma è quasi unico”.

Collaborate con i glaciologi del resto del mondo, o c’è soprattutto concorrenza? 

“Ma no, molti progetti di ricerca sono internazionali, e conosciamo bene i nostri colleghi europei, russi, australiani e cinesi. Anche gli americani, che fanno base in Nevada, a migliaia di chilometri dai ghiacciai. In Antartide tutti i progetti devono essere approvati dallo SCAR, l’ente internazionale che coordina la ricerca scientifica”. 

Consiglierebbe a un giovane di oggi di fare il glaciologo?

“Che domanda! E’ una materia che amo, è un lavoro bellissimo, ma la ricerca dei fondi è un problema”. 

Glielo consiglierebbe lo stesso tra 50 o 100 anni, quando i ghiacciai sulle Alpi potrebbero non esserci quasi più? 

“Dico solo che questa prospettiva rende più importante il nostro lavoro. Sappiamo che in futuro ci saranno strumenti e tecniche migliori di oggi. Per questo motivo dei pezzi delle nostre carote di ghiaccio rimangono in freezer, in attesa dei glaciologi del futuro”.    

 

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