Storia dell'alpinismo

Oggi avrebbe compiuto 60 anni, un ricordo di Benoît Chamoux

Sono 13 gli Ottomila saliti nella sua purtroppo breve vita, il quattordicesimo se l’è portato via a pochi metri dalla vetta. È scomparso nel nulla sul Kangchenjunga Benoît Chamoux che oggi avrebbe compiuto 60 anni. Era l’autunno del 1995 e sarebbe stato il quarto uomo al mondo a completare la corona himalayana. L’avrebbe fatto con una tecnica tutta sua, votata alla velocità. Saliva e scendeva dai grandi colossi di Himalaya e Karakorum in tempo record.

Nel 1986 fu capace di realizzare qualcosa di assolutamente nuovo. Nell’arco di soli 17 giorni salì in solitaria Broad Peak e K2. Su entrambe le montagne compì le salite in tempo record: sulla prima impiegò 19 ore per andare e tornare; sulla seconda 23 da campo base a vetta. L’anno precedente, sempre in solitaria, si portò a casa Gasherbrum II e Gasherbrum I nel giro di una settimana mentre nel 1987 si dedicò al Nanga Parbat, salito per la parete Diamir.

Non scalò solamente in solitaria e in velocità, come leader guidò diversi alpinisti e raggiunse insieme a loro la vetta dell’Annapurna, del Manaslu, del Cho Oyu e dello Shisha Pangma. Queste ultime spedizioni erano parte del progetto “L’Esprit d’Equipe”, nato nel 1988 insieme all’amico Agostino Da Polenza. Insieme collaborarono a diversi progetti di ricerca scientifica in altissima quota. Convinto sostenitore che l’alpinismo non potesse essere solo un mezzo per soddisfare il proprio ego contribuì a rivoluzionare lo spirito himalayano sostenendo che la montagna potesse essere di aiuto alla scienza. Nei primi anni Novanta fu tra i protagonisti della prima misurazione dell’Everest utilizzando la tecnologia satellitare.

Si parla poco di quest’alpinista sempre sorridente, dal viso “intagliato come legno”. Sono passati 26 anni dalla sua scomparsa e la sua eredità in campo alpinistico è presto scritta. La velocità non è un male, se usata saggiamente, e l’alpinismo può essere utile. Quando parliamo di Benoît Chamoux non parliamo di conquistatori dell’inutile, ma di un nuovo modo di intendere l’alpinismo che non disdegna la prestazione sportiva, che guarda alla storia delle montagne e che punta a dare un significato diverso al raggiungimento della vetta. “Mi viene da sorridere pensando ai tre moschettieri: ‘Tutti per uno, uno per tutti’. Ce l’avevi nell’anima quel motto, mio giovane amico” lo ricorda Agostino Da Polenza. “Di D’Artagnan avevi il coraggio, l’intelligenza e il senso di responsabilità”.

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