Storia dell'alpinismo

20 agosto 1980, la solitudine assoluta di Reinhold Messner

Esiste la solitudine assoluta? Qualche viaggiatore o esploratore l’ha sperimentata sui ghiacci dei due Poli o nel Sahara, gli astronauti delle missioni Apollo sono sbarcati sulla Luna a due a due. Nella storia dell’alpinismo si può pensare a Walter Bonatti sulla Nord del Cervino nel 1965, o a Hermann Buhl, dodici anni prima, sulla cresta sommitale del Nanga Parbat. 

Il 20 agosto del 1980, Reinhold Messner sale verso la vetta dell’Everest, in una solitudine che definire assoluta è poco. Oltre gli 8000 metri, l’altoatesino segue le tracce dei pionieri, Edward Norton e Howard Somervell nel 1924, Lawrence Wager, Percy Wyn Harris Frank Smythe nel 1933. I britannici di mezzo secolo prima, però, hanno affrontato l’Everest prima del monsone, salendo su rocce stratificate e scivolose, alternate a fazzoletti di neve e di ghiaccio. Si muovevano su un terreno simile George Mallory, Andrew Irvine, e gli altri che, tra le due guerre mondiali, hanno tentato la cima lungo il filo di cresta. 

La seconda impresa di Reinhold Messner sull’Everest inizia a novembre del 1979, quando un articolo sul giornale Beijing Chronicles annuncia che, dalla primavera successiva, verranno aperti alle spedizioni straniere il Kongur, il Muztagh Ata, lo Shisha Pangma e il Qomolangma Feng, l’Everest secondo la nuova grafia cinese.

Qualche settimana dopo, Messner atterra a Pechino insieme a Jürgen Lehmann della Bavaria Film, una società di produzione di Monaco, e incontra i vertici della Chinese Mountaineering Association. Il permesso, il trasporto al campo-base, la presenza di un ufficiale di collegamento e un interprete, due yak con i loro conduttori costano quasi 50.000 dollari. “E’ il permesso di spedizione più caro della mia vita, comprato secondo regole capitalistiche in un paese comunista” commenta Messner. Fa sorridere pensare che oggi, a spendere una cifra del genere, sono le centinaia di alpinisti-clienti che partecipano alle spedizioni commerciali.

Il 17 giugno 1980, Messner vola da Monaco a Pechino. Con lui è la sua compagna Nena Holguin, una fotografa canadese che ha sangue pellerossa nelle vene. Nena accompagnerà l’alpinista fino al campo-base avanzato ai piedi del Colle Nord, ma non è in grado di seguirlo più avanti. Dopo una sosta a Lhasa, dove “gli stranieri sono guardati come bestie rare”, i due ripartono insieme all’ufficiale di collegamento Cheng e all’interprete Tsao. Il monastero di Rongbuk, che ha accolto gli alpinisti britannici degli anni Venti e Trenta, dopo la Rivoluzione culturale di Mao è ridotto a un cumulo di rovine spazzate dal vento.

Dal campo-base, a quota 5100, Nena e Reinhold si acclimatano raggiungendo i 5806 metri del Nangpa La, sul confine con il Nepal. Poi risalgono il ghiacciaio di Rongbuk, con gli yak carichi e i loro conduttori tibetani, fino al campo-base avanzato ai piedi del Colle Nord, che Reinhold raggiunge da solo.

Il tentativo alla vetta inizia il 17 agosto, quando Messner porta uno zaino con 18 chili di materiale al Colle Nord. Riparte l’indomani, nel cuore della notte. Stavolta un ponte di neve cede, e l’alpinista cade per otto metri in un crepaccio. Si ferma su un terrazzino instabile, ai piedi non ha i ramponi, sotto di lui l’abisso continua per decine di metri. Quando torna all’esterno, però, Reinhold Messner riparte deciso verso l’alto. Pensa a George Mallory e Andrew Irvine che sono passati da qui “con un’attrezzatura pietosa”, al loro compagno di spedizione Noël Odell che li ha osservati e poi attesi invano più in basso. Poi, passo dopo passo, sale verso la cima.

Reinhold Messner affronta l’Everest ad agosto, in un break del monsone, e trova una montagna carica di neve. Il 18 agosto pianta la sua tendina gialla a circa 7800 metri. L’indomani, abbandonata la cresta Nord-Est, dove riconosce il First e il Second Step, s’inoltra in diagonale nella parete, “un trapezio alto due chilometri e mezzo, e largo quasi un chilometro”. La neve tiene, ma in quel pendio bianco e uniforme non ci sono punti di riferimento, e occorre salire per via intuitiva. 

Vorrebbe raggiungere il Canalone Norton e accamparsi al di là, sui pendii che conducono alla cima. La stanchezza lo costringe a fermarsi prima, su un masso ricoperto di neve a 8220 metri di quota, che forma un promontorio al riparo dalle valanghe. Per cena scalda del pollo al curry liofilizzato, aggiunge pane nero e formaggio, riflette su quanto è più comodo fermarsi in un campo dove la cena è preparata dagli sherpa. Il freddo non è eccessivo, tra i 10 e i 15 gradi sottozero. 

Alle 8 dell’indomani riparte, lasciando lo zaino e i bastoncini nella tenda. Oltre all’abbigliamento e ai ramponi, porta solo macchina fotografica e piccozza. Raggiunge il Canalone Norton, il punto massimo toccato dagli inglesi, e lo risale costeggiando dei salti di roccia giallastra. Il pendio diventa sempre più ripido, poi si può uscire a destra. Seguono altre ore di fatica, poi una barriera rocciosa costringe l’alpinista ad andare ancora a destra. Alla fine, quando inizia a pensare che non arriverà mai, il treppiede lasciato nel 1975 dai cinesi compare davanti ai suoi occhi.

Reinhold è già arrivato quassù due anni prima, dal versante nepalese, con Peter Habeler, al termine della prima ascensione senza bombole e respiratori a ossigeno. Quella volta, però, i due alpinisti avevano seguito un itinerario battuto e attrezzato, e pernottato in campi riforniti dagli sherpa. Ora la solitudine è assoluta, spaziale.   

Come in trance”, Messner scatta qualche immagine del paesaggio, poi fissa la macchina alla piccozza e fotografa sé stesso. Intorno agli 8848 metri della cima le nuvole e il sole si alternano. Alle 16 inizia a scendere. “Io sono Sisifo” mormora mentre segue a ritroso le sue orme. Una tosse violenta lo squassa. 

Prima del buio Reinhold torna alla tenda, s’infila nel sacco a pelo, ma non ha la forza per sciogliere della neve. Quando riparte prende solo bastoncini da sci e piccozza, e abbandona il resto. Dopo la traversata diagonale, scende direttamente al Colle Nord. Più in basso, un tratto ripido lo costringe a scendere faccia a monte. Scendo con la sicurezza di un sonnambulo” scriverà Messner. Scivola, si frena con la piccozza, si ferma dove la pendenza diminuisce. Poi la sua compagna Nena Holguin, che lo ha atteso al campo-base avanzato, lo abbraccia e lo accompagna verso la tenda e il riposo. 

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7 Commenti

  1. Che dire. Non sarà l’alpinista più simpatico ma sicuramente il più grande. 40 anni fa ad agosto,sul color Norton in solitaria e senza ossigeno si è scritta una pagina indelebile della storia dell’alpinismo.

  2. Peccato che solo pochissimi italiani abbiano proseguito lungo la strada aperta da lui, che è italiano, più di 40 anni fa….. si possono contare sulle dita di una mano…..

  3. E prima il Nanga da solo e il GI in stile alpino e poi la traversata GI GII …
    Un uomo che immaginava e provava a realizzare l’inimmaginabile

  4. Visto che l’ha tirato in ballo… Michael Collins è stato pilota del modulo lunare dell’Apollo 11. Mentre Armstronge e Aldrin scesero sul suolo lunare, lui rimase da solo sul modulo in orbita attorno alla luna. Risulta dunque l’uomo che si sia spinto più lontano dalla Terra, nonchè il più isolato: lo fu totalmente anche dal punto di vista delle comunicazioni mentre orbitava sul lato nascosto della Luna. Lunghi minuti che passò sicuramente ben conscio di dove si trovasse: mezzo milione di chilometri da casa, solo e isolato… Sarebbe bello farlo incontrare i due esploratori dell’impossibile: sono tuttora entrambi vivi!

  5. Fa un certo effetto pensare a quest’impresa di 40 anni fa quando oggi ti portano in cima praticamente per manina pagando più o meno la stessa cifra del suo permesso, oserei dire paradossale. Chissà se a quei tempi si sono mai posti la domanda delle spedizioni commerciali e si sono mai immaginati che 40 anni dopo sarebbe stato così “semplice” salire sulla montagna più alta del mondo.

  6. Fa un certo effetto pensare a un essere umano che si spinge, davvero, in una “terra incognita”, ai confini della forza fisica, della motivazione e della forza interiore.
    Il paragone con l’astronauta, secondo me, non è esatto, dato che il supporto tecnologico, in quel caso, è massimo: Messner, quando prende piccozza, ramponi e macchina fotografica e tenta la vetta, taglia un cordone ombelicale, consapevole dell’intensità e irreversibilità di tale scelta.
    Ci tenevo a commentare questo bell’articolo di Ardito per la fortissima attualità che porta in sé, in un momento, come il presente, nel quale chi desidera spazio e silenzio è meglio che se ne stia a casa: cosa cerchiamo in montagna? Qualcosa che assomigli a una fila del supermercato o un’esperienza personale – non paragonabile, magari – ma che si avvicini, o almeno tenda, alla salita in alto intesa come discesa in se stessi?

  7. Un impresa assoluta, sicuramente una delle più impressionanti nel mondo alpinistico, compiuta da uno con un fisico fenomenale ed una volontà d’acciaio. Parete nord dell’Everest, in solitaria “vera” senza nessun sulla montagna, senza radio, assolutamente solo, durante il monsone… Irripetibile….

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