Storia dell'alpinismo

Un telegramma da Lhasa

Cent’anni fa il via all’esplorazione dell’Everest

Cent’anni fa, un telegramma che arriva dal cuore dell’Asia cambia la storia dell’alpinismo e dell’esplorazione. A inviarlo da Lhasa, la capitale del Tibet, è il Political officer Charles Bell, il rappresentante dell’India britannica alla corte del Dalai Lama. All’altro capo del filo, a New Delhi, il messaggio viene ricevuto e protocollato. Poi un nuovo telegramma, firmato dal Viceré Frederic Thesiger, visconte di Chelmsford, parte alla volta di Londra. “Bell telegrafa di aver illustrato al Dalai Lama il progetto e la necessità di attraversare il territorio del Tibet, e ha ottenuto l’approvazione del suo Governo”.

 

Quando il permesso viene finalmente rilasciato, l’idea di un tentativo all’Everest ha già parecchi anni alle spalle. Ci ha pensato certamente Douglas Freshfield, che nel 1899 ha compiuto il periplo del Kangchenjunga, la terza vetta della Terra, con un team di cui fa parte il fotografo biellese Vittorio Sella. Prima di quel viaggio, nel 1885, il medico e alpinista Clinton Dent, primo salitore del Dru, ha scritto nel suo Above the Snow Linenon penso che sia saggio tentare l’ascensione, ma credo che questa impresa sia umanamente possibile. E sono certo che, già ai giorni nostri, questa affermazione verrà dimostrata concretamente”. 

Negli anni tra l’Otto e il Novecento, le grandi vette dell’Himalaya iniziano a essere tentate, e non soltanto dagli inglesi. Nel 1895 Albert Frederick Mummery affronta il Nanga Parbat, e scompare sul versante di Diamir. Poi, nel 1902 e nel 1905, Aleister Crowley organizza due tentativi al K2 e al Kangchenjunga. Nel 1909 il Duca degli Abruzzi, con le sue guide di Courmayeur, trova l’itinerario per salire la seconda montagna della Terra. Poco prima, nel 1907, altri due professionisti nati ai piedi del versante italiano del Monte Bianco, i fratelli Henri e Alexis Brocherel, hanno accompagnato Tom Longstaff sui 7120 metri del Trisul, che resterà a lungo la vetta più alta mai toccata dall’uomo. 

Il vero padre delle prime spedizioni all’Everest è però Francis Younghusband. Nel 1887, da tenente delle King’s Dragoon Guards, ha compiuto un incredibile viaggio attraverso il Deserto di Gobi e i 5376 metri del Passo Muztagh, ed è stato il primo europeo a vedere da vicino il K2. Ventidue anni dopo, nel 1919, diventa presidente della Royal Geographical Society, e spiega di essere “determinato affinché l’avventura all’Everest sia l’elemento centrale della mia presidenza”. Naturalmente si augura che la cima venga conquistata da una spedizione britannica, e che il primo a salirla “sia un inglese, o almeno uno scozzese”. Tra gli anni di Freshfield e Mummery e l’insediamento di Younghusband, due conflitti hanno cambiato il mondo. La prima è naturalmente la Grande Guerra, che ha sconvolto l’Europa causando circa dieci milioni di morti. Un numero che aumenta notevolmente se si considerano le vittime della Rivoluzione russa, scatenata proprio dal conflitto mondiale, e che prosegue con una lunga e sanguinosa guerra civile.

Ad aprire l’Everest ai britannici, però, è una guerra più piccola, e di cui pochi in Italia hanno sentito parlare. Nel 1904 Lord Curzon, Viceré dell’India, organizza una “spedizione militare”, una piccola invasione del Tibet. Della colonna di soldati che entra nel paese del Dalai Lama fa parte Francis Younghusband, che è diventato colonnello, ed è il responsabile della parte politica dell’impresa. I militari britannici e indiani, armati con fucili a ripetizione e mitragliatrici, fanno a pezzi le milizie tibetane che tentano di respingerli con cariche a cavallo, spade e vecchi archibugi. Negli scontri, e in particolare nella battaglia di Chumik Shenko, vengono uccisi oltre cinquemila tibetani. Per fermare la strage Thubten Gyatso, il tredicesimo Dalai Lama, firma un trattato con l’India britannica e Londra. Accetta che Lhasa, la sua capitale, venga collegata da un cavo telegrafico a Calcutta, e accetta la presenza di un Political officer britannico. 

Per lo stesso motivo, nel 1920, il sovrano del Tibet dà il permesso per la prima spedizione all’Everest. “Non so come sono andate davvero le cose, ma è possibile che questa subordinazione di fatto alla Gran Bretagna abbia contribuito a convincere la Cina, mezzo secolo dopo, a impadronirsi del Tibet” mi ha spiegato qualche anno fa Fosco Maraini, alpinista e profondo conoscitore dell’Asia. 

Il resto della storia è più noto. Nella primavera del 1920, come presidente della Royal Geographical Society, Younghusband spedisce in India, in Sikkim e in Tibet il tenente colonnello Charles Howard-Bury. A Yatung, la città tibetana più vicina al confine del Sikkim, l’ufficiale incontra il Political officer Charles Bell, che poi riferisce la richiesta al Dalai Lama. Nel gennaio del 1921, dopo il fatidico telegramma, la RGS e l’Alpine Club iniziano a organizzare la spedizione, raccogliendo fondi (circa 4000 sterline del tempo) e selezionando i partecipanti. Il 18 maggio, sotto la pioggia battente del monsone, gli alpinisti, i topografi e una lunga carovana di bestie da soma e portatori lasciano Darjeeling per dirigersi verso il Sikkim, il Tibet e l’Everest. 

La spedizione, com’è logico, è soprattutto un’avventura esplorativa. Insieme al tenente colonnello Howard-Bury, che la dirige, partono una squadra di topografi e scienziati e soltanto quattro alpinisti. Uno di loro, Alexander Kellas, salitore di varie cime inviolate del Sikkim, muore quasi subito di mal di montagna. Un altro, Harold Raeburn, non sta bene e dà un contributo limitato. Gli altri due alpinisti, Guy Bullock e George Leigh Mallory, compiono una straordinaria esplorazione nelle valli di Kharta e di Rongbuk, si affacciano sul Nepal dai 6006 metri del Lho La, poi scoprono una possibile via di salita all’Everest e la percorrono fino ai 7000 metri del Colle Nord. Da lì, fin dall’anno successivo, passeranno le altre sei spedizioni degli anni Venti e Trenta. 

Al fianco degli alpinisti britannici, già nella spedizione del 1921, sono gli sherpa. Si tratta di montanari di etnia tibetana, originari delle valli nepalesi del Khumbu e noti per la loro resistenza, che da qualche decennio lavorano nelle piantagioni di tè di Darjeeling. A consigliare a Howard-Bury di arruolarli, perché “meno indisciplinati dei tibetani”, è il Political officer Charles Bell nell’incontro del 1920 a Yatung. 

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